giovedì 14 luglio 2016

Karl Ove Knausgaard: la bellezza del nulla


Una delle poche costanti del pubblico letterario è la sua assoluta imprevedibilità. Per ogni tonnellata di merda y.a. che viene prodotta e consumata, per ogni gran bel romanzo che finisce a marcire con cinque copie vendute1, capita ogni tanto, dentro e fuori dagli italici confini, che un prodotto di ottima fattura riscuota un successo incredibile. È stato in passato il caso del Nome della Rosa, tanto per rimanere fra noialtri, e ne è nuovamente il caso per questo Min Kamp di Karl Ove Knausgaard. 

Karl Ove Knausgaard, classe 1968, autore di due romanzi dal buon successo nella sua Norvegia, si è ritrovato ad essere - quasi per sbaglio - una rock-star del panorama letterario mondiale. E lo ha fatto con un'autobiografia di oltre 3500 pagine su metà della sua vita. 
Lo stesso pubblico che bolla romanzi di avventura da meno di 400 come troppo lunghi e noiosi, è stato più che felice di consacrare la ricostruzione meticolosadegli abusi paterni, delle insicurezze dell'adolescenza, di una gran quantità di piatti lavati; vestiti stirati; caffè preparati e consumati, e di acquistarne un numero considerevole di copie.

Parte di me non riesce a resistere alla tentazione di additare questo successo a una serie di scelte di marketing quantomeno discutibili3. Come il faccione di Karl Ove (indubbiamente un bell'uomo) schiaffato sulla copertina - o la scelta dei titoli per le parti stesse (che nell'originale non li hanno), che associate all'immagine di copertina, lasciano un'impressione ben lontana dalla realtà su quello che conterrà il romanzo. 

Tanto per, eccone una: 

























Gli osservatori più attenti potranno notare un elemento di marketing, fra lo splendido paesaggio nordico, che spesso contrassegna altri tipi di romanzi. Sto parlando delle grosse lettere blu a evidenziare il titolo... no, sto chiaramente parlando del culo. 
Un'altra copertina (la memoria mi abbandona sui dettagli) riporta una serie di braccia alzate e luci stroboscopiche - una scena tratta da una discoteca, per farla breve - e, inutile a dirsi, nella parte in questione di discoteche non ve n'è neanche una.

Il punto è che chiaramente il marketing ha cercato di fare leva su tutti gli aspetti del romanzo che potevano venire commercializzati. Vale a dire tutti quelli di cui nel romanzo non c'è traccia. Il sesso, principalmente, che apparirà ben oltre la prima migliaia di pagine, e l'aria da anima tormentata di Karl Ove, che ovviamente anima tormentata non è. Quasi ogni copertina riporta il suo viso sotto luce calda, e lo immortala - contemplativo - nella sua migliore espressione concentrata e contrita. Lo stereotipo dello scrittore romantico come pochi se n'erano visti prima. 

Talmente cliché da far male. Certo, si potrebbe argomentare che un uomo che ha dedicato 3500 pagine alla sua vita relativamente priva di eventi non possa venire considerato così alieno da ottiche di marketing di immagine. L'attenzione, come per tutti gli scrittori, è ovviamente il suo pane. 
Ma c'è una profonda differenza. E questa differenza risiede nel genere di intimismo che Knausgaard mette in scena.

E questo intimismo è, al contrario del marketing di cui ha beneficiato, disgustosamente sincero. Quando l'onestà andrà di moda, Knausgaard sarà l'uomo più popolare sulla Terra. Cattive battute a parte, in questo sta quanto incredibile sia la viralità delle sue vendite.

Perché Knausgaard è, barocchismi linguistici a parte, l'esatta incarnazione di tutto quello che non si può vendere a un vasto pubblico. Una vita qualunque, coltivata nella quotidianeità; i piccoli drammi di ogni famiglia; una sincerità poco, mi si passi il termine, glamourosa. Non ci sono fuochi d'artificio, non ci sono botti o feste a sorprese. La vita di Karl Ove non è segnata da dipendenze disumane o avversità di alfieriana memoria. Per quanto abbiano provato a spacciarlo per tale, Karl Ove non è Slash. Non è nemmeno Mick Jagger, se è per questo. E nemmeno è Bukovsky. 

Il Min Kamp è la quintessenza del fare intrattenimento con la vita, del farci spettacolo, senza farne uno spettacolo. Senza renderla una farsa.

Karl Ove non ha dipendenze da eroina. Karl Ove fa il caffè e ha come ospiti i vicini di casa a cena; non combatte sui campi della seconda guerra mondiale per difendere la sua patria; la serve lavorando in una casa di riposo, insegnando letteratura e inglese in una piccola scuola del Nord. 

Non che nel romanzo manchino gli avvenimenti nella maniera più assoluta o le emozioni di qualunque sorta. Non si tratta di un reportage sulla banalità di vita. Ma le piccole conquiste, i traumi; tutto ciò che ha segnato l'uomo che oggi scrive, è contornato da quella che di fatto è la vita di tutti noi. Riciclo un'espressione orrenda  da poche righe sopra: il glamour è stato completamente rimosso.

Quello che è rimasto sono delle magnifiche descrizioni della natura - cariche di un'enfasi personale nostalgica/sentimentale; Knausgaard è riuscito a portarmi alla mente panorami dei miei luoghi di infanzia4. Alcune fra le più belle descrizioni dei momenti di infatuazione e successiva disillusione che un uomo provi entrando e uscendo dall'amore, che mi sia mai capitato di leggere.
Pagine memorabili sui dettagli più insignificanti che mai mi sarei aspettato di notare e isolare dal resto del testo.
Knausgaard non è incapace poi di riflessioni interessanti. Dai miei ritagli riporto un breve passaggio:

"Even then I had felt I was being false, someone who carried thoughts no one else had and which no one must ever know. What emerged from this was myself. This was what was me. In other words, that which in me that knew something the other didn't, that which in me I could never share with anyone else. And the loneliness, which I still felt, was something I had clung to ever since, as it was all I had. As long as I had that no one could harm me, for what they harmed then was something else. No one could take loneliness away from me. The world was a space I moved in, where anything could happen, but in the space I had inside me, which was me, everything was always the same. All my strenght lay there. The only person who could find his way in was dad, and he did too, when I was dreaming and he seemed to be in my soul and shouting at me. For everyone else I was unreachable. Well, in my thoughts they could reach me, anyone at all could stir them up, but what were thoughts worth? What was consciousness other than the surface of the soul's ocean? Other than small gaily coloured boats, floating plastic bottles and driftwood, waves and currents, whatever the day might bring, over a depth of several thousand metres. Or depth was the wrong word. What was consciousness other than the cone of light from a torch in the middle of a dark forest?"

Sì, non esattamente materiale da saggio di filosofia, ma è questo il punto. Knausgaard non scrive per fare della filosofia, non scrive per rivelare il segreto della vita. Scrive per arrivare alle sue conclusioni, alle verità a cui è arrivato vivendo. Scrive un testamento alla sua esperienza. All'esperienza di un uomo. All'esperienza di un'anima. Scrive per comunicare, inutile a dirsi, ma quello che comunica non può che essere della materia più genuina. Non può che essere un figlio esclusivo dell'esperienza e del tempo. In altre parole, un prodotto letterario.
















































1 No, non sto parlando del mio romanzo. Fottiti.
2 Al limite del morboso.
3 Dove per discutibili si intende tutto uno spettro di scelte che spaziano fra il disonesto e il semplice trash.
4 Che, in quanto sedentario genovese, sono ben diversi, oggettivamente parlando, dalle foreste di Tromoya e Arendtal. 

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