mercoledì 22 giugno 2016

Ritorno ai Tempi dello Splendore.

(per qualche motivo c'è un gruppetto di gente che legge questa roba, se sei fra loro e ti stai chiedendo che fine ha fatto la seconda parte della storia breve: ci sto lavorando ma ho avuto da fare/sono pigro/ devo studiare un bel po' di roba per continuarla, per cui arriverà eventualmente)


Yeah, è il momento di una recensione. 
Voglio parlare dell'album che rimane, tuttora, il mio preferito in ambito di musica moderna. Premettendo che non sono un musicologo e non sono un musicista, credo di avere dei buoni motivi per raccomandare questo lavoro. Intanto rispondiamo alla domanda fondamentale: perché?
O meglio: perché recensire un album uscito nel 2004, di una band oramai praticamente sconosciuta?
Il motivo è semplice: recentemente si sono riuniti, e se il lavoro che hanno preparato in questi 12 anni varrà l'attesa voglio che abbiano tutta la pubblicità che mi è possibile fare.
Per cui ecco la mia recensione di Back to Times of Splendor, della band tedesca metal progressive Disillusion.

...And The Mirror Cracked.

L'album si apre in medias res: nei primi secondi ci accoglie una breve intro di chitarra e batteria che stabilisce il mood di tutta la prima metà. Un riff piuttosto pesante si alterna all'altro e avvicinandosi all'introduzione della voce già si evidenzia uno dei motivi principali per cui amo così tanto questo lavoro: la sua complessità. I Disillusion non sono Beethoven - non sono nemmeno avversi alla struttura tradizionale strofa-ritornello-strofa (anche se su questa vedremo delle eccezioni notevoli proseguendo con le tracce) - ma nonostante tutto hanno caricato questo album di musica. C'è tanta musica nelle canzoni, buffo a dirsi, ma quello che in pratica significa è che la ripetitività è tenuta al minimo: i riff si alternano continuamente, così come i cambi di effetti sulla voce; gli assoli non sono semplici virtuosismi ma si integrano perfettamente; e anche dove la ripetizione viene usata non è mai con banalità: una volta viene proposta la frase, entrano voci, ne escono altre, si raddoppia, la batteria cambia il suo pattern ecc ecc.
Insomma dicevamo dell'ingresso della voce: il versatile Andy Schmidt (cantante, bassista, tastierista e chitarrista) da il meglio di sé alternando voce pulita ad uno scream e un growl piuttosto leggeri, che enfatizzano i punti più espressivi del testo, e riesce a comunicare perfettamente tanto cattiveria, forza e aggressività quanto dolcezza - merito anche dei molti effetti vocali usati e alternati.
La prima strofa e il primo ritornello scorrono via e fluiscono in un assolo che cede poi il posto ad una sezione acustica. Senza voler indugiare ancora troppo, ci sono alcune sottigliezze del testo che apprezzo molto in questa canzone. La scrittura dei Disillusion non è sempre delle migliori, e cede spesso al superomismo nietzschiano tipico dei testi metal, o a volerla dire un po' più alla leggera: al cazzodurismo di tradizione leghista. Per questo alcuni versi sono un piacevole diversivo, come:

"And with courageous verve I stride

chop the heads off plants aside, still wondering"



Alla fine del primo verso, l'aspettativa viene settata su qualcosa di più "metal", (le teste dei nemici?) e il tutto prende una piaga di impotenza intimista piacevole (allitterazioni a mille) quando a venire decapitati sono dei semplici tulipani.


Anche il verso


"I have been demure

Cries were silent but heart ablaze.

have been one of his shadows

Condemned to stray an unlit maze.

My feet are numb, soles torn wide open
After endless years of clambering
My path is lit and leads me north."


nella brutta verità che chi non sa scrive tende ad abbondare nelle esagerazioni (e nei testi ci saranno un bel po' di endless, inifnite, thousand e quant'altro), ha una sua certa grazia.

Fall.



Sentire il riff di apertura di questa canzone evidenzia pienamente quello che intendevo dicendo il mood della prima metà. Le prime tre canzoni sembrano infatti quasi formare un unico, più lungo pezzo. Fall è la più tranquilla, presentando quasi unicamente voce pulita. E non è un caso, perché il testo introduce qui l'elemento della malinconia, della nostalgia, che le distorsioni avrebbero un po' rovinato.



"Deep it must have been
The thorn that spread a veil of constancy
Times in stalemate, times of certitude
Again and again this wound
It's these moments
When the comfort of the bygone
And the light of long gone days
Enchant me with their hollow songs
And grasp for me with their stone-cold hands."


La lunghezza di questo pezzo è piuttosto sospetta, considerando la media dell'album, e qualcosa nella sua struttura auto-concludente e autonoma mi fa pensare che sia stata progettata così, sperando di infilare almeno un singolo in radio. 
Il secondo verso ha di nuovo qualcosa di grazioso:

"And both we know that you knew

pain would grow through you

But we pretended soils would flourish

from the time we turn our backs."

Alone I Stand In Fire.

Il respiro affannato di Andy ci introduce all'ultimo pezzo della prima trilogia. Ho trovato interessante l'uso dei sussurri (difficili da sentire persino in cuffia) che viene fatto. Di nuovo ritorna il tema del machismo, o se vogliamo dell'auto-incoraggiamento. Eppure è con un po' di infantilità che affermo quanto abbia funzionato in questo pezzo. La sequenza di accordi trionfanti, la cattiveria che ci mette il cantante e la ricaduta strumentale successiva; c'è qualcosa nel combinarsi del tutto che rende il ritornello, quel

"But today will be my day

When I stand up and be brave

Today it is me and my ire

Today I stand alone in fires."

veramente galvanizzante. Il brano si conclude con una piccola uscita di pianoforte che è - bizzarro - perfettamente integrata con il riff pesantissimo che ci ha accompagnato finora. Un rimorso personale: avrei apprezzato sentirne di più, o che avessero trovato il modo di integrarlo in altre tracce, perché ogni volta che le tastiere di Schmidt si sentono sono eleganti, leggere, e contribuiscono moltissimo.

Back To Times Of Splendor

Ah, la title track. Che dire della title track? Che dire di questo piccolo concerto - visto che con i 14 minuti di lunghezza, la durata è quella -?
Amo tuttora alla follia quell'introduzione di violino. Così semplice ma così efficace nel trasmettere quello che le prime strofe del testo ci spiegheranno. Un barlume di speranza e poi la caduta. Il massiccio, pesantissimo riff di chitarra che sovrasta all'istante lo strumento sintetico incarna alla perfezione quello sciame di vespe che rovinerà tutto:

"Half way through the wheat, my golden foe
With his itching ears in the scorching heat.
The weight of summer, torment to my hands
Armed with a sickle I am out for his beguiling glance.
Thought I heared a mare neighing from the creek
Where in every hour spared we anxiously would meet.
Drunken whispers noone could hear
'til the day when hordes of wasps
Poisoned every hour so passed."

La tempesta, l'estate, il grano e il mare. Potrà essere una mia impressione personale e non condivisa, ma c'è qualcosa in questa musica, in questo testo, che sorregge benissimo le immagini che vuole evocare.
Non è male anche la figura retorica, nel verso successivo, del

"She Leaned to me and whispered tears into my ear."

Il pezzo prosegue e cresce esponenzialmente, si gonfia fino ad arrivare all'apice finale: la tempesta. L'ostinato. I must have seen it coming. Anche qui il testo ci regala un verso piuttosto pregevole:

"At sudden swallows took upon the scene

Heralding what I could not have foreseen

a threat of rain on the dark horizon

A strong foreboding of a storm arising.
And willows'd roar, midges dazzled
birches sigh from painful lessons
lessons they'd learned in life
that every stem breaks if bent too far."

Dopo di che la tempesta. E qui tutto cambia, perché dopo qualche secondo di silenzio e tuoni distanti parte un giro di basso tipicamente groove. Inizia il "secondo tempo", ovvero un lungo strumentale di chitarre, tastiere, basso e mandolino. 

"Oh my longing's neverending. Time's so pale

So come with colors, paint it burning red

I fear no more, can see clearly now

The morning sun beyond the clouds.
And when the dark night seems endless
With only a quarter moon left of light
I am longing back to times of splendor
Longing far away, away from here and back to you."

Mi rendo conto che con tutto questo citazionismo del testo la musica stia passando in sottofondo. Me ne dispiace sinceramente, perché è la musica il forte di quest'album (un'altra frase piuttosto bizzarra da vedere scritta). Back to times of splendor è un banchetto di riff, melodie, assoli e variazioni. È orecchiabile e difficile; alterna un ritornello pop a dei riff pesantissimi; ha un uso brillante delle strumentazioni sintetiche così come delle acustiche. Riesce ad evocare perfettamente quel senso di spaziosità e importanza che il titolo stesso suggerisce.

A Day By The Lake.

Dall'estremamente ambizioso all'estremamente umile: a day by the lake è il pezzo più acustico e rilassato di tutto l'album. Due semplice note, ripetute costantemente, riescono a dipingere con un'efficacia sorprendente quello che la canzone rappresenta: una giornata al lago, appunto. Il protagonista è sopravvissuto alla notte (BttoS è un concept album, fra le varie cose, ma ne parlerò dopo), e la giornata successiva serve appunto a dimenticare.

"Back at last from yearning slumber

When the nightly drama came to a close

Hoping that fall will never come

Salute the morning sun
Inviting us to idleness
Hoping that fall will never come
The hour calls for secrecy
Silently we'd slip out to the lake
Hoping that fall will never come
And I stumble as of vertigo
Can't await the sound of gentle waves
Melting with the rhythm of our crave.
But today there are only elegies
Filling our tainted elysium
Still hoping that fall will never come
This place turned to a fraud mirage
Deceitful and untrue.
Still hoping that fall will never come
Embraces solace me
They hide my tears in pastel drapery
Still hoping that fall will never come
And I cry just as you
Knowing, this is coming to an end
But still I am hoping that fall will never come.

But it came."


Ho apprezzato particolarmente quel when the nightly drama, quasi l'album prendesse una piega auto-ironica riguardo ai cliché dei testi metal. Per questo pezzo devo ammettere che non ci sia molto da dire: è una canzone che vuole sapere d'estate, di calma, di rilassamento e riflessione, e diamine se ci riesce. Schmidt tira fuori il suo miglior pulito e la sua linea melodica sembra quasi un cavalcare le onde stesse - onde pacifiche - di un tranquillo lago.

Ora, esiste una regola non scritta per gli album, e questa dice che ogni tipo di parlato fuori canzone andrebbe mantenuto al minimo, perché ascolto dopo ascolto diventa sempre meno tollerato.

Back to Times of Splendor ha un'unica frase, o meglio tre parole: but it came.

È breve, è conciso, non è invadente. Ma proprio per questo è un peccato che non sia stato possibile eliminarlo. Arrivare alla fine del pezzo e sentirsi interrotti da un narratore esterno è particolarmente fastidioso quando il suo uso è presente solo in questa singola istanza.

The Sleep Of Restless Hours

E arriviamo quindi all'ultima traccia, nonché all'ultimo colosso. 17 minuti di musica. Il primo tempo di un concerto romantico importante. Un lunghissimo intro di acustica cresce e si arricchisce di voci strada facendo fino all'arrivo della voce. E qui la traccia esplode di nuovo nel tipico mix di violenza e orecchiabilità a cui i Disillusion ci hanno ormai abituati. Può sembrare paradossale, ma la cosa interessante di questo pezzo è la totale assenza di cose interessanti.The sleep non è diverso dai primi tre brani, non è diverso dal primo o terzo tempo di Back to Times, ma dimostra qualcosa di diverso, ancora. Dimostra che i Disillusion possono prendere la loro formula ed estenderla per 17 minuti, cioè che possono dare una struttura sensata e coerente a un tempo assurdo per una canzone metal. Significa, sostanzialmente, che hanno il totale controllo sulla loro musica. 17 nuovi minuti di frasi piacevoli, di crescendo e cadute, di alternanze di voci, strumenti, melodie. Liricamente, siamo arrivati all'ultimo capitolo della storia. Sì perché Back to Times racconta, nella sua globalità, una storia piuttosto semplice. Un inseguimento, una figura femminile scomparsa e un labirinto. E qui troviamo un'idiosincrasia di nuovo piuttosto interessante: dove la musica sembra più trionfale, più pronta ad annunciare un lieto fine, la storia invece si conclude terribilmente. Il nostro protagonista si trova sconfitto, e affronta il suo fallimento:

"Imposture!
At the peak of my triumphant march
Conjuration!
Doubt befalls me so close to the end.
Cannot move any further
Feet are tired from the haste
So close to the finale
I desperately need to rest
Face to face with the very substance of my journey
Just need to reach out and grab the gold
Take the crown and be king for a lifetime
But in the hour that I longed for
At the vertex of my crave
Just when I thought I had broken free
I'm even deeper inside the maze
But I don't feel lost anymore
Somehow I do not feel astray
Somehow I' m not the same as before
Maybe I've grown wiser on the way
So I write this down for you to know I've been here
Tired, torn and stripped down to the core
And that I'm not the same as yesterday
Somehow I've just grown wiser on the way
Thus, I write all this down for you to know I've been here
Close enough to almost feel your breath
Write this down for you to know
I've slept the sleep of restless hours
And when I woke, I left with the promise I would be back
Fool, Me!
Swimming in the burning sea
I have seen the careless me!
Thus, I write all this down for you to know I've been here
Close enough to almost feel your breath
Write this down for you to know
I've slept the sleep of restless hours
And when I woke, I left with knowing I would be back"

La musica si spegne per la penultima volta. Rimane un ultimo assaggio di quest'album. E gli ultimi 5 minuti ci regalano infatti una conclusione strumentale gigantesca, articolata, piena di tutti gli elementi che l'album ha tirato dentro e ha sfruttato. Gli assoli posati e trionfanti, i riff di chitarra distorta, le cadute acustiche tutto in un ultimo, lento finale.



















L'album è ok. 5.5/10
















martedì 7 giugno 2016

Storia breve #1, parte 1

Chiude la porta. Si toglie i pantaloni, toglie cravatta e camicia e collassa sul divano. L'ora della cena per i suoi vicini è passata da molto, come tutte le sere; sente le voci ancora disperse nei giardini sul retro delle case affianco. Sente la voce di quella che ha soprannominato miss Fragole per il suo fastidioso gusto per il rosso, richiamare i figli che stanno giocando con l'annaffiatoio automatizzato - li richiama e ha sviluppato il terrore, come molti adulti, se ne rende conto, che le cose si romperanno autonomamente. Ha paura che tirare su e giù velocemente il finestrino della macchina lo spaccherà. Ha paura che tutti gli oggetti anche solo remotamente vicini ai bordi dei tavoli, delle sedie, di tutte le superfici rialzate, cadranno. Non è una paura, è il terrore assoluto della certezza dell'avvenimento. Non esiste la possibilità che non vengano colpiti e non cadano: se non li toccherà nessuno sarà la gravità; sarà qualche bizzarra inversione delle leggi che regolano il vento e i baricentri.  

Accende la televisione. Le finestre sono aperte per il caldo e il fatto di sentire le voci provenire dall'esterno non ha nulla di romantico. Non gli ricorda la sua totale solitudine ogni sera che ritorna a casa, è semplicemente la conseguenza fastidiosa dello stare aspettando da quasi un mese i tecnici dell'aria condizionata che, per scegliere un mese in cui rompersi, ha chiaramente scelto luglio, e la temperatura esterna vagamente minore a quella interna.
Miss Fragole poggia la tazzina del caffè e stende le gambe in una chaise longue di plastica bianca scadente che trova disgustosamente economica per quanto siano ricchi. Che non lo sono molto, ma la sedia lo è particolarmente poco. Chiazze nere ovunque e un bracciolo che non scende mai perfettamente, bloccandosi a quei venti gradi in più rispetto all'altro non decisivi ma decisamente visibili. Si chiede come faccia a bere il caffè la sera e dormire. Forse aver avuto figli ha qualche effetto collaterale sul tuo sistema neurologico imprevedibile, una mutazione casuale e spontanea, e nel caso di Miss Fragole ora può bere il caffè come fosse gazzosa.  

Apre il frigo e si serve una coca cola in un bicchiere di vetro. Se è da solo a casa non riesce a convincersi che abbia davvero un sapore migliore. Gli altri ne sembrano così convinti, lo dicono con una sicurezza tale che non se la sente di contestare. Gli altri chi? Colleghi, principalmente. Ruffiani e arrivisti, parassiti; ma anche i colleghi veri e propri. Qualcuno fra i suoi colleghi beve coca cola? Il principio della partita doppia trova la sua nascita fra contabili dei tempi andati, distanti come lo sembra il medioevo nell'appiattirsi dei ricordi, e sostanzialmente vuole che ogni conto abbia un suo contro uguale e opposto. Di fatto la transazione è tanto inevitabile quanto inesistente; ogni movimento non cessa mai di manifestarsi; ogni entrata è al contempo un'uscita; ogni guadagno una perdita(1). Teorizzato da uomini che non si erano mai spinti oltre le coste sicure del mediterraneo, questo principio si avvicina inquietantemente a buona parte delle idee delle filosofie orientali. Quasi il flusso del denaro non fosse di fatto un flusso; o meglio fluisse al punto che è più conveniente per la stabilità del modello considerarlo stabile. C'è una grossa differenza, economicamente parlando, fra il donare titoli di borsa per una onlus e vendere quei titoli e donare il denaro ricavato dalla vendita. Una delle conseguenze meno note e più affascinanti dell'appaltare la propria industria nel terzo mondo, è vedere le facce dei suoi dipendenti quando la notizia gli viene comunicata.

Lui lo sa.

Ordina da un ristorante messicano a poche centinaia di metri da casa sua. Una delle sue novità tecnologiche preferite: un altro contatto umano inutile che è stato reciso. Mentre seleziona i piatti e la birra che li accompagnerà, ha quasi una visione di suo padre - o forse di un vecchio qualsiasi - mentre lamenta di come la tecnologia ci stia rendendo tutti asociali. Sorride, dev'essere la prima volta oggi, e pensa che sia tutta invidia per chi l'asocialità a comando non se l'è mai potuta permettere.
Tortillas o empanadas? Le empanadas sembrano meglio, ma è quello che ha già ordinato un paio di giorni fa. Alette di pollo fritto? E poi dormici con tutto quel grasso sullo stomaco...
Sbuffa e alla fine si decide per un Huachinango: pollo marinato e verdure piccanti, cotto in stile Veracuz, che viene consegnato in un contenitore di vetro con l'icona del ristorante stampato da ogni parte, da lavare e riconsegnare 2/3 giorni dopo massimo. È sensibilmente più caro di buona parte del menu, e finora non hanno recuperato solo due dei contenitori, per cui la cosa, sorprendentemente, si continua a fare.
Mentre aspetta accende il portatile; Miss Fragole ha finito il suo caffè e dev'essersi addormentata sulla sedia, o è in meditazione profonda. Dubita fortemente che Miss Fragole potrebbe mai concedersi un momento così intimo e delicato come la meditazione, e il pisolino sembra piuttosto plausibile, considerata l'ora. Suo figlio minore, uno stecchetto di ragazzo con capelli castani brizzolati e un paio di occhiali tondi che lo fanno assomigliare ad Harry Potter, sta di nuovo scrivendo col gesso sul muro di casa sua. Lo sente. Lo avverte come se gli stesse fisicamente scrivendo addosso. È fisicamente fastidioso, appunto. Resiste la tentazione di alzarsi, affacciarsi alla finestra e urlargli di smetterla. Che cos'è che lo trattiene: la stanchezza o la spiacevolezza di passare l'ennesima volta come il vicino burbero che urla dietro ai bambini? Bambini un par di palle, pensa, avrà ormai più di dodici anni; li deve avere, quanti anni sono che abito qua?
Si alza e va alla finestra al lato opposto della sala. La vista qui è assolutamente speculare: qualche metro di giardino con l'erba tagliata corta e poi un'altra casa.
La casa a sinistra è di un rosa più scuro della sua ed è abitata da quelli che lui chiama Scilla e Cariddi - soprannome di cui è molto soddisfatto. Di fatto si tratta di una coppia sulla trentina, forse persino più giovani.
E per quanto si dica che no, non è ancora così vecchio; no, non inizierà certo oggi ad avercela coi giovani; no, non è ancora il momento di essere il vicino che si scandalizza; no, ho detto di no; il vederli fra le quattro e le cinque volte la settimana assieme, dalla finestra che ancora e ancora non viene mai chiusa, o quantomeno le tende non vengono mai tirate, e di fatto poterli anche sentire se si concentra un po' - in sottofondo come il ronzio di una lavatrice in una stanza lontana, ma tant'è li sente - lo schifa come al solito. Non un poco di più né di meno. Lei ha la tendenza a prenderlo e tirarlo per i capelli mentre lo fanno. Non sembra molto piacevole, visto da fuori, specie per lui che ha i capelli corti e la ragazza ci si deve quasi appendere per riuscire a fare leva. È invidia la sua? La sua risposta di default sarebbe il no, ma non si sente più così sicuro ormai.
Sta sopra e tira i capelli. Le vede il seno cominciare già un po' a cedere - non ha neanche trent'anni - e prega Dio che qualcuno fra lui o loro traslochi il prima possibile. Guarda l'orologio: due minuti e ventisei secondi e dovrebbero aver finito. Comincia a contare i secondi. Torna a sdraiarsi sul divano. Quando ne mancano trenta comincia una sorta di ola mentale: "aooooooooooooo-"
"olé.". Tre secondi dopo sente un rumore più forte, maschile, e dopo che lei l'ha baciato un ultima volta scende e si sdraia al suo fianco.

Un tempo ero più preciso, si dice, e per togliersi l'immagine di quanto ha appena assistito cerca di pensare a qualunque altra cosa. Qualunque altra cosa. Persino la giornata di oggi.

È in piedi, appoggiato ad una scrivania, nel minuscolo atrio riempito di sedie per l'occasione. I dipendenti occupato quasi tutta la superficie. L'atmosfera è quel misto impalpabile di rassegnazione, odio e paura. Un uomo sulla cinquantina piange in un angolo e due colleghe gli passano dei fazzoletti che sono pezzi di scotex mentre cercano di consolarlo. Un altro è stato portato via dalla sicurezza dopo che ha preso la tastiera del computer e ha cercato di usarla come arma contundente contro di lui. Alla tre e mezza spaccate attacca.
"Signori e signore, colleghi e colleghe, prestatemi gli orecchi". Sorride, questo genere di citazioni lo mettono sempre di buon umore.
"Quando Attila andava in un Paese, si diceva che lì l'erba non sarebbe mai più cresciuta. Beh, consolatevi, perché dove andrete voi probabilmente l'erba non cresce punto. E sì sto parlando, la voce sarà sicuramente circolata, del Vasizstan.
Ora prima che scenda nei dettagli, qualcuno ha qualche domanda preliminare?"
Solleva la mano una donna minuta che deve avere poco più sessant'anni. I capelli ormai bianchi sono tinti di nero intenso e negli occhi mantiene una certa luce di gioventù.
"Prego."
"..."
"Io sono il responsabile appalti per la Verosoft, che come saprete nel 2010 è diventata socia di maggioranza della vostra azienda. Molti miei colleghi non si sarebbero nemmeno presentati, e quello che vi sto dicendo io oggi di persona vi sarebbe arrivato scritto per posta; ci credete che al giorno d'oggi usiamo ancora la posta per questo genere di cose? In ogni caso mi sono preso parte del mio prezioso tempo per venire qui a parlarvi di persona, perché sapete, voi siete importanti per me."
Un barlume di speranza attraversa la sala.
"La vostra - a noi piace chiamarlo arto, come fossimo tutti parte dello stesso corpo - il vostro arto, stavo dicendo, ha prodotto i migliori PCR del mercato dagli anni novanta ad oggi. Avete lavorato instancabilmente e con dedizione ed è per questo che oggi vi vengo a portare questa importante novità. Come sapete recentemente la riforma dell'infrastruttura del Vasizstan ha dato nuova linfa vitale al Paese, e saremmo solo che ingrati ad uno sviluppo umano così bello se non contribuissimo per quanto in nostro potere. Per questo, a partire da oggi e nei successivi otto mesi, il vostro arto verrà reciso e impiantato in un nuovo organismo, per trovare nuova linfa vitale."
"L'hai già detto!", urla un uomo dall'anonimato della piccola folla.
"Grazie mille. Di fatto il vostro arto cesserà di vivere, per così dire, entro i prossimi otto mesi".
"Cioè ci licenziate tutti?", chiede una donna. Il pubblico rumoreggia. L'uomo che piange sta piangendo molto più forte di prima e stringe fra le mani un rullo da stampante che usa a mo' di rosario, e alterna le lacrime alle preghiere.
"No, no, assolutamente no. Innanzitutto le condizioni strutturali del Vasizstan e i suoi fornitori esteri fanno sì che spostare l'intera gamma di produzione del vostro arto non sia ancora economicamente vantaggiosa. Questo significa che solo la produzione degli A1 fino ai B6 verrà trasferita."
"Ma così rimangono solo i C4, 6 e 9; ci lavorano quattro persone al massimo!", urla uno.
"Sei, per la precisione, ma non è tutto qua. Come sapete alcune infami norme governative ci impongono di mantenere un minimo di dipendenti dal luogo di lavoro originale. Per la precisione l'8%. Quindi congratulazioni, tutti coloro che volessero partecipare a questo nostro sogno sono liberi di farlo. Vi basterà scrivermi personalmente".
Tira fuori un biglietto da visita su cui scarabocchia il suo nome e il numero di cellulare. Fra la folla Ivan Arakceev si domanda a cosa serva avere dei biglietti da visita se poi ci deve scrivere sopra quello che normalmente contengono i biglietti da visita.
"Buona giornata a tutti", conclude con il suo sorriso migliore. Scortato da due uomini della sicurezza si allontana fra il rumore generale.

Seduto sul divano di casa propria, affamato, aspettando il suo cibo, con in mano un bicchiere di coca cola di vetro sul cui sapore non riesce ad esprimersi certamente, si sente uno schifo. Altre vite. Le ha appena sfiorate, c'è passato tangente ed è riuscito a rovinarle. Come ce la fa? Si considera straordinario, da un certo punto di vista, e forse lo è.
Il budget di esercizio viene erroneamente identificato con la quantità di capitale investibile e da ripartirsi fra le varie attività, quando si identifica, a conti fatti, con il processo operativo e la quantificazione economico monetaria degli obbiettivi sanciti dalla programmazione, e con il piano d'azione per il raggiungimento dei suddetti obbiettivi, e, infine, con la valorizzazione del suddetto piano.
Per anni si è visto come un catalizzatore dell'odio. Presentandosi personalmente dove gli altri mandano lettere, diventando, a conti fatti, il capro espiatorio, si è sentito di fare una cosa giusta. O meno sbagliata. Di fatto viene difficile credere che sia qualcosa di giusto. Gli hanno spaccato i vetri della macchina e tagliato le gomme abbastanza volte da avere l'impressione che qualcosa di giusto lo stia facendo, però. Non dal suo punto di vista. Dal suo punto di vista esistono solo lavoratori che costano un salario minimo orario e tasse e sovrattasse e assistenza sociale e previdenza sociale e sindacati e altri lavoratori, da altre parti, che costano un salario minimo.
Gli piace che nella definizione la stessa parola abbia due significati diversi, lo trova appagante.
Funzione dei centri di responsabilità, e loro natura stessa, è quella di stabilire determinati obbiettivi raggiungibili con certe risorse, determinare le strategie per il loro raggiungimento, determinare gli intervalli di tempo in cui vadano raggiungi e controllare e seguire il loro raggiungimento stesso.
Il fatto che esistano e basta è appunto amorale. I lavoratori, intende. Cioè privo di morale. Non che manchi, non vi è proprio. Il fatto che la morale non c'entri non rende la sua scelta più semplice.
Al contrario. Diciamo che non conosce persona che tornata a casa la sera abbia altrettante volte e con altrettanta intensità il desiderio di doversi contenere per non esplodere in milioni di piccoli pezzi. Difficile da definire catartico. E ultimamente la cosa gli inizia a pesare. Più del solito, diciamo. Al punto che ultimamente non se la sente più tanto di fare il capro espiatorio. Sa che è il suo dovere e sta facendo solo il suo dovere e le decisioni vengono da sopra di lui e se fosse lui a decidere non costringerebbe un suo sottoposto a fare quello che sta facendo ma comunque non ce la fa. Gli ultimi due appalti li ha fatti per lettera. Quello che si era ripromesso di non fare mai. Di fatto oggi, finita la conferenza, prima di uscire e prendere un taxi e tornare al suo ufficio, si è chiuso in bagno a vomitare. Non è la prima volta che gli succede, e per un po' lo fa sentire bene. Ma ora non ci vuole pensare.

Domani grazie a Dio niente visite a nessuno. Tutto il giorno in ufficio fra protocolli da firmare e moduli da compilare e facce anonime di persone a cui tutta questa carta va e da cui ritorna con altre firme e altre moduli altrettanto firmati e compilati.
Nella casa affianco è cominciato il secondo round. Ha una certa stima per chi riesce a ricominciare subito appena finito, qualcosa di cui non è mai stato capace. Si alza e riempie l'annaffiatoio con l'acqua della doccia. Si è ripromesso di dare l'acqua ai gerani ogni volta che c'è un secondo round e per ora sembra stare funzionando, perché i fiori sono sani e a guardarli si tira sempre un po' su. Non stasera. Stasera non gli fanno provare nulla. Quantomeno non peggiorano la situazione. Si chiede quanto diamine possa volerci ancora a consegnare il suo cibo. Mentre li annaffia Miss Fragole lo vede e lo saluta. Non si era accorto si fosse svegliata. Improvvisamente l'idea di essere in mutande lo coglie. Non gli importa poi molto. Ha come l'impressione che la donna lo guardi con un certo desiderio.

Qualche posizione sopra la sua, nell'organigramma aziendale, c'è un uomo che segue fanaticamente gli insegnamenti di un supposto esperto di "comunicazione" e "pnl" e "tecniche comunicative", che gli ha ripetuto sufficientemente volte che quanto insegna lui non sono le solite stronzate new age con cui si riescono a inculare un buon numero di manager, ma è qualcosa di completamente diverso. Eccetto che a conti fatti sono esattamente lo stesso gruppo di stronzate new age con cui si riescono a inculare i manager, ma l'uomo ci è cascato. O meglio ha scelto di cascarci. Ha scelto di credere che avendo sentito abbastanza volte ripetersi come non lo fossero, di fatto non lo siano. Che non è vero, ma è tutto molto più semplice quando scegli di crederci. E così fra le idee proposte c'è una ripresa del motto latino mens sana in corpore sano e quasi tutti i dirigenti, che lo vogliano o meno, fanno circa un'ora e mezza di palestra al giorno. Lui lo sa, ed è consapevole di avere un buon fisico.

Ha una sottile linea sugli addominali; pettorali, tricipiti e quadricipiti piacevolmente gonfi, ed è generalmente piacevole da vedersi.
Teoricamente l'aumento di produzione di qualunque prodotto con margine di contribuzione secondario > 0 dovrebbe essere un dato positivo, tuttavia considerando l'effetto sul mix di vendita della diminuzione nella produzione, per semplice proprietà delle proporzioni, di prodotti il cui prezzo di budget sia superiore al prezzo medio di budget, si prospetta un futuro piuttosto nero per l'azienda stessa.

Torna in casa e poggia l'annaffiatoio. Sono più di quaranta minuti, il cibo dovrebbe arrivare da un momento all'altro. Il campanello suona.
Si affretta ad attraversare la casa. Fa la sala in poche falciate. Spalanca la porta.
Davanti a lui c'è una donna. Sarà alta un metro e sessanta. Capelli biondi corti, occhi grandi, una maglietta con scritto "daddy" che le arriva a malapena alla bocca dello stomaco; shorts particolarmente corti e un paio di scarpe da ginnastica bianche. Ha un fisico asciutto e ben delineato e sembra vagamente annoiata mentre fissa il cellulare e mastica qualcosa.
Alza lo sguardo, lo vede e sorride. Lui è confuso ma sorride a sua volta.
Si appoggia allo stipite della porta. L'idea di essere in mutande lo colpisce di nuovo.
Sorride ancora.
"Non sapevo venissero a casa tua senza neanche doverle chiamare adesso.", le dice mettendosi a ridere.
La ragazza lo guarda perplessa qualche secondo.
"Sono tua figlia."




















(1): non esattamente. 

venerdì 3 giugno 2016

Intervista col Mostro.


- Ma perché lei pensa che io ci creda?
- Sì direbbe di sì. L'impressione è quella.
- Le voglio raccontare una cosa. 1996, mi segue?
- Fino a qua...
- Allora ci siamo io, Mario Servi, Federico Allontani e Carla Schlegel.
- No un momento, questi chi sarebbero?
- Miei compagni di corso. Siamo al secondo anno. Federico ha appena passato privato due, d'accordo? Allora la vuole sapere una cosa?
- Sono tutto orecchi.
- Allora quella sera si va a festeggiare, no - e allora io e Mario si ha un po' bevuto, no, sa com'è tra giovani?
- Non dovrebbe essere lei quello giovane?
- Via non ci si pigli pe'l culo, ci intendiamo? 
- D'accordo, continui pure.
- Eh allora Mario ci fa: oh Matte 'ché noi non si va un po' a scrivere sui muri.
- Quanti anni avevate?
- Ventidue direi, se non sbaglio. Gliel'ho detto che si aveva bevuto un poco.
- Va bene, e quindi?
- E quindi noi si va in via Santucci, capito - dietro la facoltà - e si decide di scrivere.
- Va bene.
- E lo sa che ci scrivemmo lì?
- Immagino di stare per scoprirlo.
- Ci scrivemmo: "Power doesn't corrupt people, people corrupt power." 
- E quindi?
- E quindi è Gaddis, mica un pirla qualunque. 
- ...
- L'aveva appena detto eh, l'inglese i miei coglioni, se mi permette.
- Il presidente è lei, può dire quello che le pare.
- E questa potrebbe essere una delle più grandi balle di tutti i tempi.
- Va bene e allora?
- E allora le dico ma uno come me, con centodieci e lode alla sapienza, con tutti i libri letti e i film d'arte di sta sega e tutte le mostre e i discorsi - ecco le dico, ma uno come me, secondo lei, ci crede davvero?
- Si direbbe di sì. L'impressione è quella. Comunque il voto è 109, a voler essere pignoli.
- E lei si vuole fermare alle impressioni?
- Non sono la cosa più importante, in politica?
- Lasci perdere la politica per un secondo, e se glielo dico io...
- Di cosa si tratta, allora?
- Di necessità, comunicazione, marketing se vogliamo. Funziona e va fatto, va fatto e lo fai. Se non lo facessi gli altri ti mangerebbero; e tu ti fidi degli altri al potere?
- Molte persone non si fidano nemmeno di lei, se è per questo.
- Posso dirle una cosa?
- Certamente
- Ma lei lo sa quanto mi importa?
- Posso immaginarlo.
- Ecco allora lo immagini. E non le dico cosa che non vorrei passare pe' volgare.
- Ma allora tutto l'immaginario dello zoo? I gufi, i corvi e le civette?
- Stronzate. 
- Così diretto?
- Le etichette piacciono. Cosa vuole che le dica. Ma secondo lei a me frega un beneamato cazzo che quello è un gufo e l'altro l'è una quaglia e quello chi sa che sia? Però lo si dice. Lo si dice perché lo s'ha da dire.
- È una forma di dovere?
- È il fantomatico compromesso di cui è fatta la politica. Ora se ne parla spesso di questo caspita di compromesso ma non s'è ancora capito che cosa sia poi. Cioè la gente non l'ha capito. Ma lei crede che io quando vo' in piazza a sentirmi la gente che mi parla de i cazzi suoi come fosse responsabilità mia lei crede che io mi diverta? Il compromesso è intellettuale, non morale, gliel'ho detto.
- Intellettuale?
- Sì perché secondo lei a me i discorsi vuoti piacciono? Ma... secondo lei a me della retorica del volemose bene frega qualcosa? Io crede che non ci sputerei nella faccia di chi mi dice questo non lo voto perché l'hai fatto tu?
- Sì ma ora si calmi...
- No io non mi calmo per un cazzo - perché secondo lei uno si alza tutti i giorni alle sei per andare a litigare con quella testa di cazzo di Brunetta - che poi lei lo sa quanto mortificante sia a livello intellettuale avere a che fare tutto il giorno coi cinque stelle? Con la meloni? Con la Gelmini? Con Razzi e la Bindi e tutto il resto? No dico che io sarei pure disposto a farlo, però uno si alza tutte le mattine alle sei per lavorare fino alle dieci e avere a che fare con questo carroccio di imbecilli, e tutto questo non è nemmeno il compromesso. Il compromesso viene dopo, viene quando devi andare ogni volta su un podio e non puoi essere stanco e cinico e te stesso, no che devi essere il tuo messaggio. E il tuo messaggio me lo faccia dire, mi fa cadere le palle.
- Il mio?
- Il mio. 'Ché non si capisce come mai uno non possa essere mai stanco. Lo vede? Ogni volta che salgo sul palco a parlare io devo essere l'Italia che riparte e rinasce ed è carica e giovane e fresca e tutte queste cazzo di parole in inglese che guarda me le levi... È questo il compromesso: la sincerità. Io non ci posso andare su un palco e dirle quello che penso. Sono il presidente e ho meno potere di tutti. Io non lo posso fare uno stato su facebook dicendo che oggi ho più voglia di morire che di congratularmi per l'ennesima start up di raccomandati che fra tre mesi sarà a chiedere l'elemosina come tutte le altre. Il compromesso è intellettuale, gliel'ho detto.
- Quindi lei non ci crede?
- Io ci credo eccome. Ci credo più di chiunque altro o a quest'ora me ne sarei già andato affanculo. Ma non posso crederci come dico. Nessuno può. Nemmeno Lapo quando stava a tirare più di Kobe Bryant avevo tutto questo ottimismo. 
- Capisco.
- Guardi io glielo dico: Io sono un intellettuale. Potrà non crederci, potrà farsi due risate ma io lo sono. Ho letto più di lei, ho visto più di lei, conosco la musica meglio di lei. 
- È la sua parola contro la mia.
- Solo un intellettuale potrebbe stare così perfettamente sulla linea fra l'abbastanza sofisticato per non annoiare e l'abbastanza semplice da essere capito da tutti. Pensa che sia facile? Pensa che ai discorsi non mi garberebbe più citare Mann piuttosto che Pertini? Che poi Pertini le sembra scelto a caso? Lei lo sa chi sono io?
- Vagamente.
- Io se fossi uno sport sarei il tennis. Se fossi un romanzo sarei il Grande Gatsby. Se fossi un compositore sarei Tchaikovsky; uno scrittore King, un attore Clooney. Io se fossi un piatto sarei una pizza con il tartufo; se fossi un architetto sarei Wright, un pittore Warhol. Lo capisce cosa voglio dire? 
- Abbastanza ma non troppo?
- E le sembra facile? 
- Non saprei cosa risponderle
- Beh glielo dico io: è difficile, terribilmente difficile. A me il tennis fa cagare; se di un romanzo hanno fatto il film vuol dire che fa schifo; di Tchaikovsky mi piace solo la sesta; King è narrativa di genere da due soldi; Warhol non è nemmeno un artista. Però questo non glielo posso dire. Non glielo può dire nessun politico. Nessuno che miri a contare qualcosa, almeno.
- Con tutto il rispetto, non è quello che gli si chiede.
- D'accordo, ma il punto è che nessuno di voi è tenuto ad avere un personaggio e mantenerlo integro costantemente. Ma... secondo lei perché io non li leggo i commenti sulla mia pagina? Pagina su cui manco scrivo io. 
- Tempo?
- Anche. Ma se ce l'avessi, ha voglia di sapere quello che farei a certa gente?
- Francamente no.
- E allora sa che le dico?
- Tutto orecchi.
- Almeno lei, per una volta. Almeno lei se ne vada affanculo.