martedì 26 luglio 2016

Il tramonto di Sanders - sulla fine dell'americano più socialista dai tempi delle infiltrazioni delle spie russe.





Vedere e ascoltare la mezzora di presentazione con cui Sanders ha incoraggiato e promosso Hilary Clinton alla D.n.c. di quest'anno, è stato un po' come vedere il cadavere pugnalato di Cesare alzarsi per promuovere l'ascesa politica di Bruto.
Qualcosa del genere. Esagerazioni a parte.

E non si tratta unicamente della semplice eguaglianza Cesare = buono; Bruto = cattivo, quanto piuttosto un gioco di parole su come il candidato ormai sconfitto - in entrambi i casi per motivi di forza - si costringe a lasciare il passo a chi può fare la differenza.

Solo aver scritto l'espressione "fare la differenza" mi fa stare male. 
Il discorso di Sanders è stato persino peggio. La nostra rivoluzione politica - la nostra rivoluzione politica. La nostra rivoluzione politica è finita. Qualcuno direbbe che non sia mai nemmeno iniziata. 

È stato un bel sogno. Che il discorso politico sia ritornato per qualche mese sul livello dei principi e non delle riforme. Discutere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato piuttosto che se abbassare o alzare del 2% l'iva sui consumi.

C'è poi tutto un discorso sul senso di appartenenza e di identità politica che è molto difficile da tirare in ballo senza che sembri un richiamo disperato di attenzione o di senso di importanza. Vogliamo tutti fare parte di una rivoluzione? Non è così scontato. E soprattutto è davvero un innalzamento del livello della discussione o ne è solo una forma meno sofisticata? Di nuovo non ho una risposta decisa. Spero si tratti di qualcosa di soggettivo.

So che questo post sarà un flusso di coscienza disorganizzato e orrendo perché quello che penso della fine della campagna di Sanders è un flusso di coscienza disorganizzato e orrendo. Orrendo emotivamente, per modo di dire.

Ridistribuire la ricchezza. Che sia sbagliato che l'85% di tutta la nuova ricchezza generata sia incamerata dall'1% della popolazione. Chi non è d'accordo tira in ballo spesso la meritocrazia. È così semplice? Esistono persone che sono talmente meglio del lavoratore medio che si meritano 10, 20, 50 miliardi di dollari?

Sembrano domande retoriche ma non lo sono. Non ho una risposta. La mia impressione è chiaramente negativa, ma non ci scommetterei. Fra cinque anni potrei aver cambiato idea completamente. Già ora alterno nei i miei pensieri fra il capitalismo più selvaggio e un socialismo che farebbe impallidire Mao. Devo ammettere che due anni di economia mi hanno portato ad avere una certa simpatia intrinseca per le banche e le imprese e tutto il marketing delle istituzioni.

Mi sarebbe piaciuta la depressione. In questa circostanza, voglio dire. È stata la culminazione della lotta di una vita, di una vita di un uomo totalmente dedito alla sua lotta. Ed è finita in una cocente sconfitta di fronte alla più semplice e viscida, me lo si concederà, rappresentazione dell'establishment.

Troppo vecchio, troppo di sinistra, troppo idealista, troppo amico degli scansafatiche, dei perditempo, dei leccaculo, dei parassiti. Si dica quello che si vuol dire. 

Sanders ha perso, e nella sconfitta gli è stata negata persino la tristezza. La possibilità di strapparsi i capelli - i pochi che gli sono rimasti - mettersi a piangere e ritirarsi a vita privata. Dopo una vita a vedere i suoi ideali politici rinnegati e calpestati non gli è stato nemmeno concesso di essere una persona. Dopo l'ennesimo, l'ultimo - il più grave - schiaffo politico, gli è stato chiesto di comportarsi da politico. 

Chiesto potrebbe essere un termine debole per descrivere il trattamento.

E infatti eccolo lì: mezzora intera su un palco a sbraitare come Hilary Clinton sia il più progressivo e migliore dei candidati possibili. 

Solitamente troverei una situazione del genere kafkiana e pure divertente. Non questa volta. E non perché sia un moralista (o forse sì, che cazzo ne so), ma perché la delusione, la facciata, nasce tutta da una lotta che Sanders non può che aver fatto per gli interessi degli altri.

Cosa frega del minimum wage a una persona che ha vissuto con il ben più alto stipendio da senatore per gli ultimi trent'anni della sua vita? Cosa gli interessa dei college quando il suo figlio più piccolo deve preoccuparsi caso mai della pensione? Cosa gli interessa del servizio sanitario nazionale a lui che è assicurato e stra-assicurato?

La lotta di Sanders è stata puramente altruistica, per cercare di realizzare la visione del mondo che reputa più corretta. E quando la lotta è fallita del tutto, gli è stato tirato lo schiaffo morale del dover promuovere l'incarnazione di tutto quello contro cui abbia mai lottato.

Il potere che si conserva, si passa le cariche di marito in moglie, dai padri ai figli; dalle lobby ai gruppi di interesse.

È una retorica molto facile, me ne rendo conto, ma è la base per il dramma umano dell'uomo Sanders.

Non tutti possiamo vincere, immagino sia la morale. Qualcosa di molto anti-americano.

Come lo è Bernard Sanders, dopo tutto. 






















sabato 16 luglio 2016

Tre Poesie Postmoderne Semi-Serie Sull'Agenda o Diario che Una Buona Percentuale di Noi Aveva alle Medie Chiamata "Bastardi Dentro".

1

Avevamo il diario,
di Bastardi Dentro,
e lo trovavamo divertente.

Non ci è rimasto niente;
la distanza è terrificante
dal nostro divertimento.

2

E non è che tutto quello che fa parte dell'infanzia sia intrinsecamente destinato a venire rinnegato e deriso - non necessariamente, o meglio sarebbe meglio che lo fosse ma così non è (un destino simile da molti punti di vista agli sbocchi lavorativi di buona parte delle facoltà umanistiche (a questo punto l'idea che chi si laurea in qualcosa di umanistico sia destinato a non trovare lavoro è diventato talmente un cliché che avrebbe dovuto sfondare da tempo la barriera dell'ironia e tornare ad essere puramente falso (vale a dire che gli sarebbe dovuto succedere quello che è successo a tutta una serie di generalizzazioni, e specificatamente quelle più vecchia-scuola legate alla razza e alle religioni (che non è il punto, il punto è che c'è qualcosa di surreale e buffo nel modo in cui il cliché continua invece perfettamente a sopravvivere e rafforzarsi (o forse non c'è assolutamente nulla di buffo, o quantomeno nulla di surreale considerato che a differenza degli altri cliché ha delle ottime basi economico/statistiche su cui fondare la sua dogmaticità (tanto per ritornare al concetto di cliché religioso - un argomento piuttosto attuale date le circostanze circostanziali del momento (come se potessero esistere circostanze che non sono circostanziali (il punto, in questo caso, è che riprendendo dall'affermazione di partenza - vale a dire tutta l'idea del rifiuto dell'infanzia - quello che fa male è forse un semplice effetto collaterale dell'empatia che si dovrebbe provare ma non ci si riesce (vale a dire dell'empatia per le fatiche che si è fatto per superare quella infanzia e in cui si vede gli altri ancora bloccati (se non che ci si accorge subito che gli altri non hanno nessuna intenzione di uscirci e anzi ci si trovano benissimo e tutta l'empatia va a farsi fottere e questo è forse il motivo per cui vedere la pagina del diario di scuola di Bastardi Dentro con delle battute che hanno la capacità di curare il cancro per poi causarne una forma alternativa che è incurabile e che uccide ancora più lentamente e dolorosamente del cancro normale, fa così male)))))))))).

3

Schifo e invidia sono più la stessa faccia della stessa medaglia
di quanto lo siano i sistemi di tasse progressive
e le gaussiane del rapporto tempo/convenienza.

Lenin una volta aveva detto,
alla fine Pannella era un brav'uomo
peccato sia morto.

Mi manchi Pannella,
portami via,
portami via da questa città.

Non voglio morire.
So che se dovessi morire voi fareste una statua a Don Gallo,
Vi vedo già pronti, coi chiodi e gli scalpelli,
e non ve lo posso far fare.

Se voglio leggere della poesia
mi guardo il mastro budget
di un'azienda che abbia incorporato
ed eseguito con successo
con notevoli risultati di economicità ed efficienza
l'activity based costing.

Fanculo a quel diario di merda.






venerdì 15 luglio 2016

Storia breve #1, parte 2

"Parliamo di data. Dati, sostanzialmente. Tutto quello che siamo. Quanto di più obbiettivo ci doverebbe essere. Di fatto i dati sono come le stelle: troppi per contarli e ci sono solo se li vuoi vedere. Di conseguenza quello che realmente un dato è, è l'opinione di chi l'ha scelto. Dal mucchio, capisci? Ogni dato rappresenta un'opinione, o meglio ogni gruppo di dati collettivamente rappresenta la stessa opinione. Poi ci sono i livelli: es, io e super-io. Cioè i livelli di dati. Superficiali, scavati, in ordine della matrice che li genera. Sai come si suddividono? Fatto sta che i sotto-dati rappresentano sotto-opinioni, o meglio le diverse correnti di cui si compone un'opinione. Le impressioni brutali di quando vedi che qualcosa e ti fa sentire qualcosa. Avrai capito di cosa sto parlando. Sono rappresentazioni emotive più che ogni altra cosa, e in quanto emozioni sono manipolabili. Le persone che le provano, si intende. Attraverso i sotto-insiemi di sotto-dati abbiamo il controllo diretto sugli stimoli nervosi basilari che portano a tutta una certa serie di scelte. Esternamente siamo come l'hardware: rigidi, freddi, definiti; ma internamente siamo come il software: caldi, malleabili, immensamente espansi. Mi segui?"
"Forse. Ma questa cosa di hardware e software mi suona famigliare, come l'avessi già sentita da qualche parte."
"È un po' quello il senso della parola famigliare. In ogni caso... Il nostro guru, quello di cui ti dicevo, non fa che ripeterla. Non mi sorprenderei se l'avesse copiata anche lui da qualche altra parte."
"Ma tu non sostenevi che lui dicesse solo stronzate?"
"Vero, ma sarà la legge dei grandi numeri... questa mi è piaciuta."
"D'accordo, continua."
"Una volta che abbiamo i dati abbiamo le opinioni, e una volta che abbiamo abbastanza opinioni abbiamo la verità. Non importa quale sia effettivamente, noi ormai l'abbiamo. È nostra e in quanto nostra è malleabile. Malleabile come il software cioè come l'interno, cioè come i sentimenti. Per noi non esiste grossa differenza fra opinioni e sentimenti, ed è nostro specifico compito fare sì che le cose rimangano in questo stato."
"Immutabili."
"Esatto."
"Quindi per niente come il soft- voglio dire come l'interno!"
"È questo il punto."
"?"
"Controllo. Controllo e programmazione. I dati sono le opinioni, e non c'è nulla di più malleabile delle opinioni. Un mutamento totale è comparabile all'immobilità. Questo per motivi di marketing, chiaramente. Se si sapessero certe cose di noi saremmo compromessi. Di fatto tutti lo saprebbero. Allora l'unica copertura è l'esposizione. Nascondersi in bella vista, e il fumo è fatto di eventi"
"Come la battaglia di Waterloo?"
"Eventi, non avvenimenti. Mondanità immensamente noiosa. Per certi. Entusiasmante per altri. Il dualismo ci sostiene. Di fatto la nostra direzione reputa che la noia e basta non sia una protezione sufficiente. C'è tutto un gruppo specifico di persone, insospettabilmente potenti, con il gusto per lo stupefacentemente borioso. Il punto è unire la noia su un versante con la logorrea sull'altro. Per una compagnia è fondamentale essere quel genere di persona che aggiorna tutti sui social ogni volta che va a dormire o si sveglia"
"Dio santo."
"Lo sai che mi dai fastidio quando parli così."
"Va bene, scusa, continua."
"Non esattamente come quel genere di persone, più la trasparenza torbida. Cioè l'immagine di noi verso gli altri deve comunicare che per gli altri noi non siamo altro che quello che abbiamo comunicato agli altri essere noi. Nessun segreto, di più: l'impossibilità matematica del segreto nella convinzione della conoscenza."
"Che è un semplice mentire, a conti fatti..."
"Assolutamente no. La sincerità è lo stesso strumento dei dati. Va usata."
"Ma voi non volete essere sinceri."
"Infatti noi non la usiamo, la abusiamo. La sfruttiamo al punto da ridurre la realtà a qualcosa di terribilmente banale, ed è esattamente il terribilmente banale che non viene mai investigato. Capisci dove voglio arrivare?"
"Forse."
"Siamo tuoi amici. Non per davvero, ma dobbiamo esserlo. Cioè dobbiamo metterci nella posizione in cui pensando a noi siamo assolutamente simili all'amico di cui prevedi qualunque reazione con precisione atomica. E nemmeno quello. Siamo quel genere di amico di cui però ti sei già stancata."
"Quanto tempo e risorse investite su questo?"
"Più di quello che puoi immaginare. Il novecento è finito da un pezzo, il nostro focus ora è l'informazione. Informazioni, banche dati, software ed hardware. Flussi e staticità; il velo sottile e irremovibile che patina la realtà."
"La produzione?"
"La produzione è sempre quella, dovevamo inventarci qualcosa dai tempi di Ford ad oggi, non trovi? E la verità è che la rivoluzione industriale, la terza - quarta, quella che vuoi - è relazionale. La nostra relazione con l'ambiente esterno. Siamo non-entità, non-luoghi, dissolti nelle parole vuote della nostra pagina Facebook che, come saprai, si aggiorna ogni sette minuti e quarantatré secondi."
"Tempo casuale?"
"Abbiamo fatto i calcoli. Parte del processo consisteva nel rispondere efficacemente alla domanda: quanto spesso dobbiamo aggiornare per trasmettere la sicurezza che mentre non stavi guardando abbiamo sì detto qualcosa di nuovo, ma anche la certezza che non abbiamo detto assolutamente nulla. Di nuovo o meno. E la risposta è sette minuti e quarantatré secondi."
"Precisi precisi."
"Abbastanza per essere poco per chi ha un attention span pericolante, e abbastanza perché i pazienti ci banchettino."
"Con un controllo simile non dovreste essere molto più potenti di quello che siete?"
"Parte del potere sta nel non averlo."
"Sembra molto una scusa."
"Ma è esattamente così. 1984 non può durare in eterno, segue le regole del cartello. Più è potente più interesse c'è fra i suoi membri a tradirsi. Di fatto non esistono benefici pratici a crescere oltre una certa dimensione. Non che ne possiamo vedere. Mentre il beneficio della mediocrità, nel nostro senso, è l'indifferenza. Il potere di essere dimenticati. Qualcosa di infinitamente importante, come capirai più avanti. In ogni caso per oggi mi sembra abbastanza, tu cosa hai fatto a scuola invece?"

Si va a sedere sul divano. Hanno richiamato quelli del condizionatore e dovrebbero venire la settimana prossima. C'è mancato poco che minacciasse di denunciarli, nel loro breve scambio telefonico, e ora si chiede se il suo comportamento abbia accelerato o rallentato il processo di avere di nuovo l'aria condizionata in casa sua. Di fatto la temperatura è intollerabile, specie ora che è costretto ad almeno un paio di short e una maglietta. Sua figlia giochicchia col cucchiaio nel bicchiere di granita fatta in casa. Sì è sciolta interamente e rimane solo un fondo di liquido rossastro fragola stucchevole.

"Bene."
"E immagino non abbiate fatto niente."
"Se lo sapevi allora perché me l'hai chiesto?", gli chiede.
"Devo pur fingere che mi interessi di te."
La ragazza tira fuori la lingua come risposta - un'abitudine, non può fare a meno di accorgersene, ereditata dalla madre.
"A dire il vero oggi qualcosa l'abbiamo fatto."
"Devo stappare lo champagne?"
"Va bene allora immagino non te ne debba parlare."
"Su Dolores, non ci saremmo mica già offese?"
"Ti ho detto di non chiamarmi così!- e comunque, siccome insisti, abbiamo parlato di Kant."
"Interessante."
"Non ho mai sentito un tono così falso in vita mia."
"Ammetto che a quest'ora non sia proprio nell'umore."
"Torni sempre a quest'ora..."
"Per adesso."

Vede i suoi gerani un po' spenti; da quando è arrivata a casa sua ha chiuso la finestra da quel lato e non ci si avvicina nemmeno. Di conseguenza non ha più idea del quando ci siano i secondi round e quando, quindi, debba annaffiare. Si dice che dovrebbe comunque farlo, prima o poi.

La sua prima moglie aveva una sorta di disgustosa escrescenza fra la natica sinistra e la coscia, come un grosso rimasuglio dell'adolescenza, che aveva scoperto solo irrimediabilmente tardi; si era già presentato ai genitori e tutti i riti del caso, e ogni secondo trascorso assieme non riusciva più a pensare ad altro. Non si reputava così superficiale, come poteva non riuscire a passarci sopra? Passarci sopra con la mano - il pensiero lo fa ancora rabbrividire. Ogni volta che la teneva poggiandole una mano sul fianco non poteva che pensare che era . Sarebbe bastato scendere un pochino, scivolare innocentemente e avrebbe potuto sentirlo. La cosa più paradossale di tutta questa ossessione è che di fatto c'era scivolato più di una volta con la mano prima di accorgersi che esistesse e non l'aveva mai sentito. Però ora sapeva e aveva la più ferrea convinzione che l'avrebbe avvertito col tocco. Ed era l'unica cosa che riusciva a pensare mentre lei lo guardava serena e gli parlava della sua giornata, di quello che aveva mangiato, delle persone con cui aveva parlato, di quanto fosse stanca o affranta o felice di essere di nuovo assieme dopo tutto quel tempo.
Ogni parola lo faceva sentire terribilmente in colpa per il fatto di essere così ossessivamente bloccato a quel dettaglio insignificante nel complesso di una persona, e lo portava a concentrarcisi ossessivamente. E più ci si concentrava più odiava se stesso per concentrarcisi così tanto, e più odiava se stesso più si trovava ossessivamente a pensarci. Perché anche pensare a quanto ci pensasse lo costringeva, alla fine, a pensare alla cosa. Semplicemente scivolava dal pensiero di seconda mano a quello diretto. Così alla fine quando lei rientrava stanca quanto lui e buttava a terra la ventiquattrore e la sciarpa gialla di Vuitton che le aveva regalato per il loro quinto anniversario, e pareva talmente stanca da non poter sopportare un altro istante di quella vita, e in quel momento lui che era rientrato da forse un paio di minuti e nel vederla già era concentrato su quanto orribile e grottesco e deforme fosse quello specifico punto del suo corpo - che non avrebbe visto né quella notte né praticamente aveva mai visto nessuna notte che avessero trascorso assieme - in quell'istante il pensiero di averla accanto tutta la sera dolce e stanca e affettuosa come tutte le sere, lo torturava peggio di qualunque umiliazione avesse dovuto affrontare nel corso della giornata. Si meritava di stare con lei? Non perché lei in quanto donna fosse unica e speciale e superiore a lui, ma perché in quanto essere umano decente non aveva questa maniacale ossessione per un invisibile difetto fisico nel corpo del suo partner. Per venire a patti con il suo egocentrismo, con quello che reputava essere solo bieco e disgustoso - veramente disgustoso, non come il corpo di lei - egocentrismo, si costringeva a reputarsi degno di lei. E dal momento che non poteva lui mettersi nella condizione di decente essere umano e buon compagno di vita, perché sapeva benissimo di non esserlo, doveva allora lei avere i suoi stessi difetti. Doveva abbassarla al suo livello o quantomeno riuscire a crederla tale. Doveva essere ripugnante, questa volta per davvero, e si impegnava per offendersi in qualunque modo possibile. Che con scarsa meraviglia di pubblico è più facile di quanto non ci si immagini. Uno sguardo storto, una risposta eccessivamente brusca; i piatti sporchi lasciati sulla tavola o non sciacquati prima di venire messi nel lavandino. I vestiti abbandonati sulla sedia, il silenzio su quel collega che, sapeva, la guardava come non avrebbe dovuto. Tutto era più che sufficiente. Le scenate non mancavano. Le crisi, le minacce di separazione. E dire che questo alleviasse in qualche modo la situazione sarebbe stato altrettanto assurdo. Perché alla fine di ogni litigata, alla fine di ogni discussione o capriccio, il punto ritornava a esistere. Appena esisteva il silenzio, esisteva anche lui. Ma non solo, perché ora assieme al punto si erano andate ad accumulare tutta una serie di lamentele e capricci e scenate e veri e propri attacchi schizofrenici di standard impossibili e aspettative insostenibili e gelosie ingiustificate che le aveva scaricato addosso come una carriola carica di merda. Vale a dire tutta una serie più che valida di motivi per sentirsi ancora peggio e ancora più infimo e vile e inferiore a lei, e per non riuscire a pensare ad altro che al punto. E quello che è peggio, alla fine di ogni scenata- sua moglie trovava un modo per giustificare la sua isteria e far ricadere la colpa su se stessa. La donna non aveva motivo di sospettare le ragioni del cambiamento di suo marito. Il suo comportamento era sempre stato stabile. Così che il rasoio di Occam la costringeva a credere la colpa fosse sua. Così che dopo che lui quasi l'aveva picchiata per essersi dimenticata un ombrello di plastica rosa sul posto di lavoro (dove difficilmente l'avrebbe ritrovato il giorno dopo) lei si era imposta - come tutte le altre volte, ma più ancora di tutte le altre volte - di rispondere comportandosi ancora più passivamente e amorevolmente e affettuosamente e premurosamente. Così che da quel momento lui non potesse avere più nulla, proprio nulla di cui lamentarsi. Era stata cattiva, se lo sentiva, ma non lo sarebbe stata mai più. Che era esattamente quanto di peggio potesse fare, in quei momenti, quando il pensiero del punto ritornava in lui sopra ogni altro, e avrebbe solo voluto trovare qualcosa a cui appigliarsi per non doversi sentire così profondamente, irrimediabilmente inferiore a sua moglie. E in quei momenti sua moglie faceva di tutto per essere la donna più amorevole e passiva e affettuosa e premurosa che l'uomo potesse mai immaginare di convincere a venire a letto con sé. Riuscendoci.
Il punto è che dalle scenate e i capricci e gli strilli si era passati alle confrontazioni serie, alle minacce e ai silenzi, e un giorno l'aveva colpita. Era stato surreale. La giornata era la solita giornata lavorativa; forse solo i casini si erano accumulati più pressantemente o le persone l'avevano trattato vagamente peggio, o forse non c'era alcuna spiegazione logica se non il climax di scenate e isterie che ogni giorno prendevano la casa. Il punto è che l'aveva colpita. Con indecisione, a sua discolpa. Quasi si fosse pentito dello schiaffo ancora a mezz'aria. Non l'aveva colpita con forza, non le aveva fatto girare la testa per il momento della mano, ma il gesto si era consumato. Era rimasto immobile, subito dopo, fermo in piedi a mezzo metro di distanza dalla donna. Che era altrettanto immobile e piangeva in silenzio. Piangere è forse una parola grossa; aveva semplicemente una sottile riga che dagli occhi le colava il mascara per parte delle guance. E stava zitta. Così come sarebbe rimasta zitta per tutto il resto della serata.
Alle tre di notte, dopo essersi addormentati ancora nel silenzio, dandosi la schiena a vicenda nel letto, qualcosa l'aveva svegliato. Nel letto qualcuno si stava muovendo. Nello sbattere le palpebre, si era accorto che le coperte non c'erano più. Aveva i pantaloni calati e non indossava più le mutande. E sua moglie stava accovacciata fra le sue gambe con il suo uccello fra le labbra. Qualcosa che aveva sempre schifato fare a causa di un lieve trauma d'infanzia su cui non è il caso di soffermarsi, ora la occupava con una foga che a letto non le aveva mai visto. La donna si era asciugata la bocca con un braccio, aveva messo a posto le coperte e senza aver ancora detto una parola era ritornata a dormire, sdraiata fetalmente e con la testa quasi poggiata al suo petto. Il giorno successivo e la sera successiva tutto si era svolto come se non fosse mai successo nulla. Di fatto l'uomo aveva persino smesso di pensare al punto. Non esisteva più, era libero. Per un periodo di circa due settimane, fino a che un sabato lei gli aveva chiesto di controllare se si fosse tagliata andando in bicicletta, e il taglio sarebbe dovuto essere proprio sul retro di quella coscia, e l'uomo senza pensarci aveva accettato. E a guardare lì non ce l'aveva fatta. In un secondo il punto esisteva di nuovo e con il punto aveva ripreso a esistere il vortice di disgusto nei suoi confronti, disgusto nei propri confronti, auto-recriminazione e schifo che l'aveva avvolto.
Passò decisamente meno tempo rispetto alla prima volta perché la colpisse ancora. Ora lo schiaffo era stato ben deciso, però. Un tonfo sordo con cui le aveva storto la testa. Quella notte sua moglie l'aveva svegliato per baciarlo e prenderlo fra le sue gambe e la donna aveva avuto il primo orgasmo, dal momento in cui si erano conosciuti, in cui non si concentrava semplicemente, ma sentiva il bisogno fisico di urlare. Se il giorno dopo non avesse vomitato più volte ripensando al tutto, l'uomo l'avrebbe definito il sesso migliore della sua vita.
La volta successiva che la picchiò lei si propose di prenderlo da dietro. Di volta in volta la donna trovava sempre nuove e più esotiche posizioni, e l'uomo la colpiva sempre più violentemente; a volte le faceva sputare sangue. E il giorno dopo, inevitabilmente, l'uomo doveva continuamente prendersi delle pause per andare in bagno, vedere l'immagine riflessa del suo viso, e vomitare con violenza.
Avevo perso cinque chili, e questo dava un'aria nodosa alle sue mani che, sospettava, facessero ancora più male quando la colpiva. Come venire schiaffeggiati da un gatto a nove code.
Nel tempo era diventata una pratica talmente abituale, talmente consuetudinaria nelle abitudini della coppia, che quasi non ci facevano più caso. Era il loro modo di amarsi, avrebbe detto l'uomo se fosse stato in grado di razionalizzare. O meglio se fosse stato in grado di guardare con assoluta indifferenza e cinismo alla sua situazione, senza provare un briciolo di quell'immenso disgusto che provava ormai costantemente per se stesso.
Il punto è che una sera erano a cena dei suoi genitori, dei genitori di lei, e le aveva chiesto di passargli il sale. In quel momento era squillato il cellulare della donna. Un messaggio. La donna aveva risposto che era una questione di lavoro, avrebbe risposto e immediatamente dopo gli avrebbe passato il sale. Quasi per riflesso condizionato l'uomo l'aveva colpita con tutta la forza che avesse in corpo, schiantandole la testa sul tavolo e nel piatto di minestra che stavano mangiando. Di fronte ai genitori della donna.
Dopo qualche ora il problema del punto era definitivamente uscito dalla sua vita.

"Cosa ti ricordi di tua madre? O meglio del periodo in cui io e tua madre stavamo assieme?".
"Nulla, cosa posso ricordarmi, avrò avuto sì e no sei mesi".
"Ottimo".






























giovedì 14 luglio 2016

Karl Ove Knausgaard: la bellezza del nulla


Una delle poche costanti del pubblico letterario è la sua assoluta imprevedibilità. Per ogni tonnellata di merda y.a. che viene prodotta e consumata, per ogni gran bel romanzo che finisce a marcire con cinque copie vendute1, capita ogni tanto, dentro e fuori dagli italici confini, che un prodotto di ottima fattura riscuota un successo incredibile. È stato in passato il caso del Nome della Rosa, tanto per rimanere fra noialtri, e ne è nuovamente il caso per questo Min Kamp di Karl Ove Knausgaard. 

Karl Ove Knausgaard, classe 1968, autore di due romanzi dal buon successo nella sua Norvegia, si è ritrovato ad essere - quasi per sbaglio - una rock-star del panorama letterario mondiale. E lo ha fatto con un'autobiografia di oltre 3500 pagine su metà della sua vita. 
Lo stesso pubblico che bolla romanzi di avventura da meno di 400 come troppo lunghi e noiosi, è stato più che felice di consacrare la ricostruzione meticolosadegli abusi paterni, delle insicurezze dell'adolescenza, di una gran quantità di piatti lavati; vestiti stirati; caffè preparati e consumati, e di acquistarne un numero considerevole di copie.

Parte di me non riesce a resistere alla tentazione di additare questo successo a una serie di scelte di marketing quantomeno discutibili3. Come il faccione di Karl Ove (indubbiamente un bell'uomo) schiaffato sulla copertina - o la scelta dei titoli per le parti stesse (che nell'originale non li hanno), che associate all'immagine di copertina, lasciano un'impressione ben lontana dalla realtà su quello che conterrà il romanzo. 

Tanto per, eccone una: 

























Gli osservatori più attenti potranno notare un elemento di marketing, fra lo splendido paesaggio nordico, che spesso contrassegna altri tipi di romanzi. Sto parlando delle grosse lettere blu a evidenziare il titolo... no, sto chiaramente parlando del culo. 
Un'altra copertina (la memoria mi abbandona sui dettagli) riporta una serie di braccia alzate e luci stroboscopiche - una scena tratta da una discoteca, per farla breve - e, inutile a dirsi, nella parte in questione di discoteche non ve n'è neanche una.

Il punto è che chiaramente il marketing ha cercato di fare leva su tutti gli aspetti del romanzo che potevano venire commercializzati. Vale a dire tutti quelli di cui nel romanzo non c'è traccia. Il sesso, principalmente, che apparirà ben oltre la prima migliaia di pagine, e l'aria da anima tormentata di Karl Ove, che ovviamente anima tormentata non è. Quasi ogni copertina riporta il suo viso sotto luce calda, e lo immortala - contemplativo - nella sua migliore espressione concentrata e contrita. Lo stereotipo dello scrittore romantico come pochi se n'erano visti prima. 

Talmente cliché da far male. Certo, si potrebbe argomentare che un uomo che ha dedicato 3500 pagine alla sua vita relativamente priva di eventi non possa venire considerato così alieno da ottiche di marketing di immagine. L'attenzione, come per tutti gli scrittori, è ovviamente il suo pane. 
Ma c'è una profonda differenza. E questa differenza risiede nel genere di intimismo che Knausgaard mette in scena.

E questo intimismo è, al contrario del marketing di cui ha beneficiato, disgustosamente sincero. Quando l'onestà andrà di moda, Knausgaard sarà l'uomo più popolare sulla Terra. Cattive battute a parte, in questo sta quanto incredibile sia la viralità delle sue vendite.

Perché Knausgaard è, barocchismi linguistici a parte, l'esatta incarnazione di tutto quello che non si può vendere a un vasto pubblico. Una vita qualunque, coltivata nella quotidianeità; i piccoli drammi di ogni famiglia; una sincerità poco, mi si passi il termine, glamourosa. Non ci sono fuochi d'artificio, non ci sono botti o feste a sorprese. La vita di Karl Ove non è segnata da dipendenze disumane o avversità di alfieriana memoria. Per quanto abbiano provato a spacciarlo per tale, Karl Ove non è Slash. Non è nemmeno Mick Jagger, se è per questo. E nemmeno è Bukovsky. 

Il Min Kamp è la quintessenza del fare intrattenimento con la vita, del farci spettacolo, senza farne uno spettacolo. Senza renderla una farsa.

Karl Ove non ha dipendenze da eroina. Karl Ove fa il caffè e ha come ospiti i vicini di casa a cena; non combatte sui campi della seconda guerra mondiale per difendere la sua patria; la serve lavorando in una casa di riposo, insegnando letteratura e inglese in una piccola scuola del Nord. 

Non che nel romanzo manchino gli avvenimenti nella maniera più assoluta o le emozioni di qualunque sorta. Non si tratta di un reportage sulla banalità di vita. Ma le piccole conquiste, i traumi; tutto ciò che ha segnato l'uomo che oggi scrive, è contornato da quella che di fatto è la vita di tutti noi. Riciclo un'espressione orrenda  da poche righe sopra: il glamour è stato completamente rimosso.

Quello che è rimasto sono delle magnifiche descrizioni della natura - cariche di un'enfasi personale nostalgica/sentimentale; Knausgaard è riuscito a portarmi alla mente panorami dei miei luoghi di infanzia4. Alcune fra le più belle descrizioni dei momenti di infatuazione e successiva disillusione che un uomo provi entrando e uscendo dall'amore, che mi sia mai capitato di leggere.
Pagine memorabili sui dettagli più insignificanti che mai mi sarei aspettato di notare e isolare dal resto del testo.
Knausgaard non è incapace poi di riflessioni interessanti. Dai miei ritagli riporto un breve passaggio:

"Even then I had felt I was being false, someone who carried thoughts no one else had and which no one must ever know. What emerged from this was myself. This was what was me. In other words, that which in me that knew something the other didn't, that which in me I could never share with anyone else. And the loneliness, which I still felt, was something I had clung to ever since, as it was all I had. As long as I had that no one could harm me, for what they harmed then was something else. No one could take loneliness away from me. The world was a space I moved in, where anything could happen, but in the space I had inside me, which was me, everything was always the same. All my strenght lay there. The only person who could find his way in was dad, and he did too, when I was dreaming and he seemed to be in my soul and shouting at me. For everyone else I was unreachable. Well, in my thoughts they could reach me, anyone at all could stir them up, but what were thoughts worth? What was consciousness other than the surface of the soul's ocean? Other than small gaily coloured boats, floating plastic bottles and driftwood, waves and currents, whatever the day might bring, over a depth of several thousand metres. Or depth was the wrong word. What was consciousness other than the cone of light from a torch in the middle of a dark forest?"

Sì, non esattamente materiale da saggio di filosofia, ma è questo il punto. Knausgaard non scrive per fare della filosofia, non scrive per rivelare il segreto della vita. Scrive per arrivare alle sue conclusioni, alle verità a cui è arrivato vivendo. Scrive un testamento alla sua esperienza. All'esperienza di un uomo. All'esperienza di un'anima. Scrive per comunicare, inutile a dirsi, ma quello che comunica non può che essere della materia più genuina. Non può che essere un figlio esclusivo dell'esperienza e del tempo. In altre parole, un prodotto letterario.
















































1 No, non sto parlando del mio romanzo. Fottiti.
2 Al limite del morboso.
3 Dove per discutibili si intende tutto uno spettro di scelte che spaziano fra il disonesto e il semplice trash.
4 Che, in quanto sedentario genovese, sono ben diversi, oggettivamente parlando, dalle foreste di Tromoya e Arendtal. 

sabato 9 luglio 2016

meh

La maggior parte delle giornate mi sembra di non aver vissuto. Mi sembra semplicemente che il resto del mondo sia invecchiato di ventiquattro ore. È una sensazione piuttosto difficile da descrivere, come se fra me e la vita ci fosse una qualche sorta di barriera impenetrabile, come guardassi tutto  da dietro una membrana. 

Mi è estremamente difficile eccitarmi per qualcosa e me ne vergogno. 

È tutto molto ovattato. In generale. Quanto è fastidioso che qualunque cosa abbia sempre mille eccezioni? Ironicamente l'unica regola senza eccezioni è quella che ogni regola ha le sue eccezioni. Il che credo crei un paradosso, ma non ho voglia di mettermici a pensare troppo. Il fatto che crei un paradosso dà solo l'impressione di rafforzare l'idea che ogni cosa abbia cinquanta asterischi a contornarla. 

Abbiamo sviluppato un certo gusto per la merda intimista, dove tutti fanno a gara a chi può mettersi più a nudo per gli altri. Il risultato è che per non accettare l'infinita banalità della vita di chi si spoglia, si è costretti a pensare che questo essere così volgarmente sinceri sia la manifestazione di un'insincerità di secondo grado. Strato sotto strato. Chiaramente questo processo è involontario. 

C'è qualcosa di profondamente insincero e di plastico nel luminoso sorriso di una ragazzina che in dodici minuti di vlog con musica da ukulele in sottofondo ti mostra camera sua. Quello che ha comprato quel giorno. Cosa c'è nella sua borsa. La membrana è visibilissima. Non solo quella fisica dello schermo, chiaramente. È così vicina, la sua vita, che nemmeno la vuoi. E se non la vuoi è empiricamente comparabile all'essere infinitamente lontana. 

Sono immensamente non ironiche. Immensamente sincere in quello che ti raccontano. E allora l'ironia cominci a vedercela tu. Non può essere tutto lì, non posso davvero conoscerti dopo cinque dei tuoi merdosi video.

Non che non siano divertite o che si prendano sul serio. Ma non hanno nessuna pretesa di finzione, nemmeno una piccolissima. The show non è... non c'è affatto. Non esiste il palcoscenico. Quando nei romanzi del novecento si dice che viene messa in scena la vita, si intendeva qualcosa di profondamente diverso. 

Quanto è importante guardare un personaggio e non una persona? Immagino molto se la persona è confondibile con un personaggio bidimensionale.

Settembre è il mio mese preferito. I tramonti lunghi e i colori caldi e la fine della pressione sociale per andare al mare. I pini marittimi. Non che ce ne siano molti qua attorno. C'è una vecchia pubblicità dell'estathé dove due ragazzi vanno in motorino su una strada in mezzo a una pineta che è di una bellezza struggente. Uno dei motivi per cui ho voluto cercare di imparare a scrivere era quello di ricreare le sensazioni che mi dava quella pubblicità.

Grazie televisione commerciale e grosse multinazionali, immagino.

Dopo i politici e gli impiegati comunali, gli economisti sono probabilmente la categoria di lavoratori più disillusa in assoluto. 
Dopo un tot di anni in impresa il sistema diventa così indistinguibile dall'aria che respiri che l'idea di contestarlo sparisce pure dall'immaginario delle indignazioni della domenica. È qualcosa di molto romantico in un suo senso perverso del termine. Non so se li invidio o mi spaventano. 

Non sono io che ho paura di troppe cose, sono gli altri che non ne hanno abbastanza. Forse.