Altro anno, altra promessa di partecipare al Nanowrimo con passione e dedizione.
Il nanowrimo, o national novel-writing month, è un'iniziativa no profit che invita persone da tutto il mondo a tirare fuori il loro romanzo dal cassetto. L'obbiettivo è quello di realizzare 50k parole nel mese di novembre. 200 pagine circa; un romanzo. Non si vince niente, non ci sono controlli, ciascuno sfida se stesso per il solo e unico piacere di sfidare se stesso.
Sono anni che mi riprometto di partecipare e inevitabilmente fallisco. Quest'anno, con circa 50 pagine semipronte, non sono mai stato così vicino dal raggiungere l'obbiettivo. Qui c'è l'incipit del romanzo, che magari un giorno romanzo lo diventa davvero.
Introduzione. Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi.
Dai titoli degli articoli di parecchi giornali - pure di quelli autorevoli -, si viene a scoprire come ogni sostanza che si possa mangiare; bere; respirare o vestire; ogni attività che si possa intraprendere o di cui si possa essere vittima; tutto, insomma, è allo stesso tempo causa e inibitore del cancro. Ovviamente che questo sia vero o meno non ha alcuna importanza. Non importa che, quando vero, si stia parlando di percentuali talmente irrisorie, sia in un verso che nell’altro, da rendere lo stress che causa preoccuparsene - e la maggiore possibilità di contrarre il cancro in quanto stressati - un pericolo ben più grave. Non importa nemmeno quando le informazioni sono banalmente errate, o contraddittorie, così che la stessa sostanza causa e previene il tumore. Non importa nulla di tutto questo agli occhi di chi ha un cancro. Quello che importa è che ogni cosa, nella visione allarmistica e delirante dipinta dai quotidiani, ogni cosa ha tanto a che fare con il cancro come con la vita. Tutto ciò che esiste influenza entrambi, e allora l'uguaglianza sorge spontanea e potente. È la vita stessa il cancro.
Quando mio padre contrasse il cancro avevo sedici anni. No, quando il cancro di mio padre si ripresentò, quattro mesi dopo. Quattro mesi di terapia intensiva dopo. E quando si presentò sotto forma metastatica, credo si chiami così, ma insomma in una forma che non ci volle molto a farci intuire che non si tornava indietro, non ebbi una grande risposta emotiva. Probabilmente per quanto a lungo stava andando avanti la cosa. E che è interamente colpa sua. E mi rendo conto di essere assolutamente disgustoso nel dire questo. Cioè nel dire che non mi ha portato a nulla. O meglio che non mi ha causato nulla di tutto quello che ci si aspetterebbe da un figlio quando un figlio - che sarei io - viene a scoprire che suo padre ha un cancro. Ma tanto per cominciare non è vero. Nel senso che lo sapevamo, lo sapevamo già da parecchio. E subito dopo mio padre se l’era meritato. Non perché fosse una cattiva persona. No, aspetta, fammi rifare, non posso dire che se l’è meritato. Non sono disumano, lo giuro. Il punto è che cagava sangue, ok? Sì, fa schifo a dirsi ma è vero. Cancro rettale. Ha fatto passare dei mesi prima di dire qualsiasi cosa a qualcuno. E nel frattempo cagava sangue. Che già è grave. Voglio dire, è grave come sintomo quando arrivi a farlo. Il cancro ce l’hai già da un bel pezzo quando inizi a cagare sangue. Ma se non è quello un segnale per farti vedere non so cosa ti debba venire, francamente. Sembra una roba uscita dal vecchio testamento. E quindi il Signore sollevò la mano destra, e questo era giusto, e vennero a Lui tutti gli angeli, e Lui disse: “quello stronzo cagherà sangue, almeno forse lo capisce che deve andare a farsi vedere”. Più o meno. Quello che è importa è che mio padre no. Era talmente impossibile ammettere un qualche malfunzionamento in una cosa così intima come poteva essere il suo buco del culo, che ha preferito. No, non è che abbia preferito. Diciamo che ha scelto. Involontariamente. Insomma ha scelto di non voler dire nulla perché ecco. Si vergognava. Si dice morire di vergogna. È un modo di dire. Per mio padre è stato vero, in un certo senso. Sembra che ne sia quasi divertito. Non lo sono. Il singolo momento peggiore della mia vita è stato il ritorno. Perché per fortuna abitavamo vicino a uno dei migliori centri oncologici del Paese, e mio padre aveva soldi e assicurazione e cazzi e mazzi. Insomma gli abbiamo fatto - si è fatto fare - qualunque forma di trattamento all’avanguardia che non sai nemmeno che esiste finché non te lo propongono. E sembrava aver funzionato. Mio padre aveva iniziato a non avere molti più capelli, da ben prima della chemio, ed era arrivato quasi a scherzarci. Tornava dall’ospedale pallido come la wii con cui giocavo spessissimo e diceva ridendo che finalmente non doveva più farsi dissanguare dai parrucchieri. Non gli sono mai piaciuti i parrucchieri. Insomma ci rideva sopra, questo è il punto. Aveva accettato, quinta fase e tutte quelle cose. E stava migliorando di giorno in giorno. Al punto che la chemio non sembrava quasi più necessaria. Cancro: sconfitto. Se non che quattro mesi dopo si sente di nuovo male. E il cancro è tornato, ed è in fase quattro - la metastasi. Mia madre ha insistito perché vedessi qualcuno dopo che è morto. Così, per stare sicuri. Non che avessi anche io il cancro. Alla testa. Non il cancro alla testa. Che stessi bene alla testa. Danni irreparabili può fare, aveva detto, imitando la voce di Yoda. Forse quest’ultima parte me la sono appena inventata. Insomma mi mandano da quel signore che mi dice che è un bene che riesca a parlarne così. Così come? Così francamente e apertamente, mi dice. Un fatto terribile, davvero, signorino (mi chiama signorino), ed è proprio un buon segno (dice proprio un buon segno) che lei riesca a parlarne così apertamente e liberamente. E francamente. Francamente non è che io lo facessi apposta. E continua a sembrare che non mi freghi, cazzo. In verità mi frega molto. Mi è fregato molto. Quando a mio padre è tornato il cancro ha reagito molto differentemente da quando gli è venuto. Se prima aveva praticamente negato tutto. Cioè non ne voleva sapere di cose e case e film tristi su adolescenti molto attraenti che muoiono di cancro. Voleva spassarsela, divertirsi. Andava a giocare a bowling. Nota mentale #1: mio padre non aveva mai giocato a bowling in vita sua, prima di quel momento. Ricordo l’avesse definito: “una merdata americana. Sono riusciti a inventare uno sport in cui non ti devi manco muovere. Segue risata”. E usciva spessissimo e faceva l’amore con mia madre. Non chiedetemi come lo so, perché è un altro trauma che devo superare. E la seconda volta. Cioè quando il cancro è tornato in forma metastatica. Cioè insomma quando non si facevano predizioni sugli anni, ma sui mesi. Cioè in quel caso allora ha avuto come una reazione che boh. Diciamo che aveva avuto sfiducia totale nei confronti dei medici e dell’equipe e di chiunque tentasse di aiutarlo e aveva deciso di fare da solo. Prendi un bel respiro: aveva deciso che, indifferentemente dal fatto che se poteva sapere di stare male, e i dettagli più minuti di come stesse male, questo era unicamente merito dei medici, i medici erano assolutamente incompetenti nel loro lavoro e nello sforzo di curarlo, così che ci avrebbe pensato lui, ecco, e per pensarci doveva trovare una cura che fosse filosofica, più che pratica, cioè aveva deciso, parola per parola, che risolvere il problema era un problema di prospettiva, cioè che la percezione della realtà del problema, pro lemma, era proprio priva di parti percepibili, questo prima, e la sola possibilità di privarsene (credo che questo soggetto sottinteso qui sia il cancro, credo) era affrontare la questione da un nuovo angolo. Quello della fisica dei quanti.
Dovrei saperlo meglio, ma non ho mai seguito molto fisica, in classe. Ho anche fatto lo scientifico, quindi mea culpa. Ma mio padre aveva scoperto - nel senso che si era accorto che esisteva, non che l’avesse effettivamente scoperto lui - qualcosa che aveva detto Laplace. Credo sia Laplace, non mi citate su questo. E cioè questa idea che non c’è un motivo preciso per cui una qualunque particella subatomica del tuo corpo si trova e resta precisamente dove si trova ed è restata finora. Vale a dire che è possibile, in qualunque istante, che una parte intera del tuo corpo si sposti compatta a cento anni luce di distanza. O che si disintegri e si sparpagli in tutte le direzioni. Qualcosa del genere. È tutto vero, penso, ma andrebbe espresso in termini più rigorosi. E il motivo per cui il tuo corpo rimane bello compatto e immobile, secondo dopo secondo, è che è vero che potrebbe succedere (il teletrasporto) ma è così poco probabile che forse non è ancora mai successo nella storia dell’universo. Però la possibilità non è zero. In quest’ottica (che vorrei saper esprimere meglio e in termini più tecnici - cioè togliendo tutta la magia del dire wow teletrasporto) la vita e tutto quello che siamo non diventa altro che una nuvola di probabilità. Cioè che siamo costantemente tenuti attaccati, letteralmente, da una probabilità che viene testata ogni istante che passa, e che è pura fortuna il non dissolversi in un istante qualsiasi. Come il cancro. Esatto. Non puoi mai sapere quando un cancro in metastasi andrà a corrompere un altro organo, ed è per questo che i tentativi di contenerlo non sono efficaci. Ogni giorno potrebbe essere il giorno in cui prende il giro nel sangue e te lo ritrovi nel cuore. O nei polmoni. O nel cervello. Così come potrebbe essere il giorno in cui si verifica quella infinitesima, microscopica possibilità che alcune particelle subatomiche del tuo corpo non rimangano dove dovrebbero stare (almeno secondo il tuo soggettivissimo punto di vista di coscienza che ci tiene a non perdersi una mano) e la metà sinistra del tuo cranio si spacchi e finisca istantaneamente su Marte e Plutone.
Insomma per farla breve, perché che ci crediate o meno non siamo qui a parlare del cancro di mio padre. Lo so, lo so, mi dispiace. Per farla breve in quei due mesi aveva studiato e capito tutto questo. Con tutti i simboli e i termini tecnici del caso. E quelle tecniche sperimentali di cui parlavo stavano funzionando. Cazzo. Il tumore era lungo otto centimetri quando aveva iniziato, e dopo due mesi e quattro trattamenti diversi l’aveva ridotto a sei. Se i dottori fossero stati spregiudicati e avessero voluto fare del gioco d’azzardo sulla sua vita si sarebbe puntato ancora contro, ma la speranza non era inesistente. E in quei mesi mio padre andava avanti con i suoi studi e alla fine dei suoi mesi aveva dichiarato di aver capito. Cioè aveva capito che lui avrebbe sfruttato l’energia delta. L’energia delta non è molto diversa dalla forza di Star Wars. Mio padre aveva tutta una serie impressionante di foglietti del cazzo per spiegare come l’aveva scoperta e calcolata e aveva imparato a manipolarla. Ma insomma la forza delta del cazzo gli permetteva di esercitare una sorta di “pressione” sulle particelle. Uso le virgolette perché me le aveva fatte con le mani mentre cercava di spiegarmi fanaticamente e senza voce come funzionasse. Non avevo studiato, non avevo letto, non potevo capire. Almeno secondo lui. E mentre mi spiegava come cazzo funzionava tutta quella roba, e in pratica poteva manipolare l’energia delta per tenere attaccate le cazzo di particelle. Avrebbe azzerato la “possibilità”. Come facevo a non capire?! Come facevo a essere così stupido, cazzo?! Certo che c'entra, imbecille. Se posso azzerare la possibilità posso operare ugualmente a livello macroscopico, e permettere al cancro di rimanere lì dove si trova. Ho il controllo, lo capisci che ho il controllo?
Non abbiamo potuto impedirgli di interrompere la cura. Legalmente, voglio dire, perché ci abbiamo provato. E due settimane dopo averla smessa è morto.
Sono un mostro a parlarne così? Non credo. Mi dispiace per lui. Mi è dispiaciuto davvero, lo giuro. Mi è dispiaciuto al punto da avere mentito. Non avevo sedici anni quando è morto, ero molto più piccolo. Avevo appena finito le medie. Mi sembrava che l’avrei reso più umano se gli avessi messo la responsabilità di essersi ucciso, sostanzialmente, con un figlio praticamente adulto e non ancora quasi in fasce. Ma ho detto che non siamo qua per parlare del suo cancro, e non ho mentito.
Cito tutto questo perché mio padre è morto di cancro poco prima che finissi le medie, e il nostro avvocato aveva trovato una serie di piccole imperfezioni. Di sbadatezze, si può dire. Nel modo in cui era stato gestito dalla clinica. Il trattamento era stato di qualità eccelsa, lo ripeto, ma non impeccabile. Un paio di turni in cui era sotto osservazione. A metà notte, sostanzialmente. In cui gli avevano scritto che doveva essere tenuto sotto sorveglianza visiva. Ecco, avevamo dalle telecamere di sicurezza la prova che un’infermiera si era assentata più volte. Credo per farsi una sigaretta ogni tanto. Questa è una delle cagate. Ce ne sono state tante, però, nel periodo in cui è stato male. Poi che schifo fumare in quel contesto. Va beh. Lo so, lo so, la sto tirando per le lunghe. Il punto è che dopo la morte non avevamo granché, economicamente parlando. Mia madre insegnava geografia al liceo, e il grosso dei soldi li faceva mio padre. Eredità e tutto non eravamo poveri. Ma diciamo che non avremmo mantenuto lo stile di vita che avevamo. E insomma, ok, ok, chiudo tutte questo cazzo di parentesi, e insomma il punto è che dopo la sua morte il nostro avvocato viene da noi e ci dice che ha guardato il materiale (parole sue) e crede che ci siano gli estremi per fare una causa alla clinica. Mamma e bambino rimasti soli. Nessuno ci farebbe mai perdere. E anche perdessimo non ci farebbero mai pagare le spese. Mia mamma l’ha mandato a fanculo.
È un po’ difficile prendere seriamente la mole enorme di grottesco assurdo che c’è in tutto questo. Nel cancro e le stronzate sull’energia delta e i dettagli schifosi che non ho detto. Come che l’abbiamo trovato che si era cagato addosso, ed era morto nel suo ufficio da un bel po’ di ore. E puzzava di merda e di morto. Che non consiglio a nessuno. È un po’ difficile comunicare che non pensavo mi sarei mai ripreso da quel momento. È un po’ difficile comunicare quanto cazzo sia stato male. E ringrazio che mi abbiano fatto vedere delle persone. È tutto molto difficile e ovattato, come fare un esame dentro una lavatrice. Che esempio del cazzo. Amavo mio padre, non più di qualunque altro figlio con un rapporto sano con suo padre, ma neanche di meno.
E questo è il momento in cui apro un’altra parentesi, che mi porterà a risolvere la parentesi di prima, che mi porterà, a sua volta, a iniziare il punto principale. Pazienza.
Abitavamo, allora, in una delle città più grandi e affluenti, culturalmente parlando, del mio Paese. Entra in scena Carlo Abbati. Sì, quello famoso, proprio lui. Il punto qui, è che Abbati aveva avuto, in quegli anni, una specie di crisi mistica da blocco dello scrittore. Aveva tirato fuori un piccolo delirio esistenziale su come quanto avesse fatto fino a quel momento non era che una piccolezza - un gioco, sì, e un gioco che non poteva continuare. Sono le sue parole, mi sembra. Cazzo ne so. Insomma il vecchio Carlo non riusciva più a scrivere, e per occupare le giornate si era fatto dare una classe di liceo in un liceo privato della mia città. Forse i punti sono già abbastanza da poterli collegare. Il liceo che chiameremo Manzoni, che non è il suo vero nome, ma perché ci torna. Ci torna comodo avere un nome, per farla breve. Al Manzoni si è sempre speso un puttanaio di soldi. Detta con brutale onestà. È così ed è vero. E figuriamoci negli anni in cui ci insegnava Abbati. Botta di pregio, e botta alle rette. Morale della favola. Allora mi piaceva molto scrivere. O almeno credevo. Diciamo che piaceva più a mia mamma che a me. E diciamo anche che mia mamma ha sempre avuto la tendenza a proiettare su di me quello che voleva che facessi e quello che avrebbe voluto fare lei se fosse stata al mio posto. Che è un orrendo cliché di cattivo parenting, ma nel nostro caso era vero. E diciamo pure che io ero un bravo bambino che faceva i suoi compiti e provava un certo livello di soddisfazione e gusto interiore a dimostrarmi bravo davanti a loro. E poi diciamo che mia mamma aveva visto e capito e incoraggiato questa cosa che io scrivessi. Che non mi piaceva veramente, e a cui non ero bravo. Che non fossi bravo lo ho capito poco dopo, ma ci arriviamo. Con calma, cazzo. Diciamo allora che la notizia che Carlo Abbati finisce su un giornale. La notizia che insegna nella nostra città. E diciamo che il giornale finisce sul tavolo della nostra cucina. E diciamo che siccome mia madre mi aveva incoraggiato sempre a leggerne qualche pezzo perché mi avrebbe aiutato a migliorare, diceva, diciamo che lo faccio. (concludendo, più o meno) Diciamo che leggo l’articolo e chiedo chi sia Abbati. E diciamo che mia mamma se mentre scopava con mio padre non urlava il nome di Abbati, invece del suo, poco ci mancava. E diciamo che me ne parla, e io nella crudeltà ingenua dei ragazzini le dico che vorrei proprio fare quel liceo, quella classe. E diciamo (già) che mia mamma si entusiasma all’idea salvo poi ingoiare la saliva al pensiero della retta. E diciamo, infine (questa volta davvero), che allora l’immagine dell’avvocato le riemerge nel fondo della scatola cranica, e questa è la storia di come abbia mentito in tribunale prima dei miei quindici anni, di come mi sia presentato con gli occhi arrossati e delle lacrime non credo nemmeno mie, tanto per fare più pena, e di come siamo diventati relativamente ricchi, e di come mi sono ritrovato, pochi mesi dopo, in classe con Carlo Abbati.
Ferma ferma ferma. Ok, so cosa si potrebbe pensare. Non c’erano dei test in ingresso, delle selezioni? Sì, e li ho fatti e li ho passati. Forse non sono tragico come ho appena detto. Diciamo che il costo era un po’ un deterrente, e diciamo che ho la tendenza sminuirmi. Me l’ha detto un’altra persona che ho visto alla fine dei miei venti, non sono parole mie. Continuo a credere che siano stronzate. Ma forse no. Riprendiamo.
Perché questo ci porta direttamente all’inizio, e cioè durante i miei sedici, nel terzo anno di sopravvivenza in quell’inferno, e l’ultimo anno che Carlo Abbati avrebbe passato a insegnare al liceo.
Quanto ho appena detto è una stronzata, perché cominciamo precisamente l’anno prima, l’ultimo giorno di scuola.