"Parliamo di data. Dati, sostanzialmente. Tutto quello che siamo. Quanto di più obbiettivo ci doverebbe essere. Di fatto i dati sono come le stelle: troppi per contarli e ci sono solo se li vuoi vedere. Di conseguenza quello che realmente un dato è, è l'opinione di chi l'ha scelto. Dal mucchio, capisci? Ogni dato rappresenta un'opinione, o meglio ogni gruppo di dati collettivamente rappresenta la stessa opinione. Poi ci sono i livelli: es, io e super-io. Cioè i livelli di dati. Superficiali, scavati, in ordine della matrice che li genera. Sai come si suddividono? Fatto sta che i sotto-dati rappresentano sotto-opinioni, o meglio le diverse correnti di cui si compone un'opinione. Le impressioni brutali di quando vedi che qualcosa e ti fa
sentire qualcosa. Avrai capito di cosa sto parlando. Sono rappresentazioni emotive più che ogni altra cosa, e in quanto emozioni sono manipolabili. Le persone che le provano, si intende. Attraverso i sotto-insiemi di sotto-dati abbiamo il controllo diretto sugli stimoli nervosi basilari che portano a tutta una certa serie di scelte. Esternamente siamo come l'hardware: rigidi, freddi, definiti; ma internamente siamo come il software: caldi, malleabili, immensamente espansi. Mi segui?"
"Forse. Ma questa cosa di hardware e software mi suona famigliare, come l'avessi già sentita da qualche parte."
"È un po' quello il senso della parola
famigliare. In ogni caso...
Il nostro guru, quello di cui ti dicevo, non fa che ripeterla. Non mi sorprenderei se l'avesse copiata anche lui da qualche altra parte."
"Ma tu non sostenevi che lui dicesse solo stronzate?"
"Vero, ma sarà la legge dei grandi numeri... questa mi è piaciuta."
"D'accordo, continua."
"Una volta che abbiamo i dati abbiamo le opinioni, e una volta che abbiamo abbastanza opinioni abbiamo la verità. Non importa quale sia effettivamente, noi ormai l'abbiamo. È nostra e in quanto nostra è malleabile. Malleabile come il software cioè come l'interno, cioè come i sentimenti. Per noi non esiste grossa differenza fra opinioni e sentimenti, ed è nostro specifico compito fare sì che le cose rimangano in questo stato."
"Immutabili."
"Esatto."
"Quindi per niente come il soft- voglio dire come l'interno!"
"È questo il punto."
"?"
"Controllo. Controllo e programmazione. I dati sono le opinioni, e non c'è nulla di più malleabile delle opinioni. Un mutamento totale è comparabile all'immobilità. Questo per motivi di marketing, chiaramente. Se si sapessero certe cose di noi saremmo compromessi. Di fatto tutti lo saprebbero. Allora l'unica copertura è l'esposizione. Nascondersi in bella vista, e il fumo è fatto di eventi"
"Come la battaglia di Waterloo?"
"Eventi, non avvenimenti. Mondanità immensamente noiosa. Per certi. Entusiasmante per altri. Il dualismo ci sostiene. Di fatto la nostra direzione reputa che la noia e basta non sia una protezione sufficiente. C'è tutto un gruppo specifico di persone, insospettabilmente potenti, con il gusto per lo stupefacentemente borioso. Il punto è unire la noia su un versante con la logorrea sull'altro. Per una compagnia è fondamentale essere quel genere di persona che aggiorna tutti sui social ogni volta che va a dormire o si sveglia"
"Dio santo."
"Lo sai che mi dai fastidio quando parli così."
"Va bene, scusa, continua."
"Non esattamente come quel genere di persone, più la trasparenza torbida. Cioè l'immagine di noi verso gli altri deve comunicare che per gli altri noi non siamo altro che quello che abbiamo comunicato agli altri essere noi. Nessun segreto, di più: l'impossibilità matematica del segreto nella convinzione della conoscenza."
"Che è un semplice mentire, a conti fatti..."
"Assolutamente no. La sincerità è lo stesso strumento dei dati. Va usata."
"Ma voi non volete essere sinceri."
"Infatti noi non la usiamo, la abusiamo. La sfruttiamo al punto da ridurre la realtà a qualcosa di terribilmente banale, ed è esattamente il terribilmente banale che non viene mai investigato. Capisci dove voglio arrivare?"
"Forse."
"Siamo tuoi amici. Non per davvero, ma dobbiamo esserlo. Cioè dobbiamo metterci nella posizione in cui pensando a noi siamo assolutamente simili all'amico di cui prevedi qualunque reazione con precisione atomica. E nemmeno quello. Siamo quel genere di amico di cui però ti sei già stancata."
"Quanto tempo e risorse investite su questo?"
"Più di quello che puoi immaginare. Il novecento è finito da un pezzo, il nostro focus ora è l'informazione. Informazioni, banche dati, software ed hardware. Flussi e staticità; il velo sottile e irremovibile che patina la realtà."
"La produzione?"
"La produzione è sempre quella, dovevamo inventarci qualcosa dai tempi di Ford ad oggi, non trovi? E la verità è che la rivoluzione industriale, la terza - quarta, quella che vuoi - è relazionale. La nostra relazione con l'ambiente esterno. Siamo non-entità, non-luoghi, dissolti nelle parole vuote della nostra pagina Facebook che, come saprai, si aggiorna ogni sette minuti e quarantatré secondi."
"Tempo casuale?"
"Abbiamo fatto i calcoli. Parte del processo consisteva nel rispondere efficacemente alla domanda: quanto spesso dobbiamo aggiornare per trasmettere la sicurezza che mentre non stavi guardando abbiamo sì detto qualcosa di nuovo, ma anche la certezza che non abbiamo detto assolutamente nulla. Di nuovo o meno. E la risposta è sette minuti e quarantatré secondi."
"Precisi precisi."
"Abbastanza per essere poco per chi ha un attention span pericolante, e abbastanza perché i pazienti ci banchettino."
"Con un controllo simile non dovreste essere molto più potenti di quello che siete?"
"Parte del potere sta nel non averlo."
"Sembra molto una scusa."
"Ma è esattamente così. 1984 non può durare in eterno, segue le regole del cartello. Più è potente più interesse c'è fra i suoi membri a tradirsi. Di fatto non esistono benefici pratici a crescere oltre una certa dimensione. Non che ne possiamo vedere. Mentre il beneficio della mediocrità, nel nostro senso, è l'indifferenza. Il potere di essere dimenticati. Qualcosa di infinitamente importante, come capirai più avanti. In ogni caso per oggi mi sembra abbastanza, tu cosa hai fatto a scuola invece?"
Si va a sedere sul divano. Hanno richiamato quelli del condizionatore e dovrebbero venire la settimana prossima. C'è mancato poco che minacciasse di denunciarli, nel loro breve scambio telefonico, e ora si chiede se il suo comportamento abbia accelerato o rallentato il processo di avere di nuovo l'aria condizionata in casa sua. Di fatto la temperatura è intollerabile, specie ora che è costretto ad almeno un paio di short e una maglietta. Sua figlia giochicchia col cucchiaio nel bicchiere di granita fatta in casa. Sì è sciolta interamente e rimane solo un fondo di liquido rossastro fragola stucchevole.
"Bene."
"E immagino non abbiate fatto niente."
"Se lo sapevi allora perché me l'hai chiesto?", gli chiede.
"Devo pur fingere che mi interessi di te."
La ragazza tira fuori la lingua come risposta - un'abitudine, non può fare a meno di accorgersene, ereditata dalla madre.
"A dire il vero oggi qualcosa l'abbiamo fatto."
"Devo stappare lo champagne?"
"Va bene allora immagino non te ne debba parlare."
"Su Dolores, non ci saremmo mica già offese?"
"Ti ho detto di non chiamarmi così!- e comunque, siccome insisti, abbiamo parlato di Kant."
"Interessante."
"Non ho mai sentito un tono così falso in vita mia."
"Ammetto che a quest'ora non sia proprio nell'umore."
"Torni sempre a quest'ora..."
"Per adesso."
Vede i suoi gerani un po' spenti; da quando è arrivata a casa sua ha chiuso la finestra da quel lato e non ci si avvicina nemmeno. Di conseguenza non ha più idea del quando ci siano i secondi round e quando, quindi, debba annaffiare. Si dice che dovrebbe comunque farlo, prima o poi.
La
sua prima moglie aveva una sorta di disgustosa escrescenza fra la
natica sinistra e la coscia, come un grosso rimasuglio
dell'adolescenza, che aveva scoperto solo irrimediabilmente tardi; si
era già presentato ai genitori e tutti i riti del caso, e ogni
secondo trascorso assieme non riusciva più a pensare ad altro. Non
si reputava così superficiale, come poteva non riuscire a passarci
sopra? Passarci sopra con la mano - il pensiero lo fa ancora
rabbrividire. Ogni volta che la teneva poggiandole una mano sul
fianco non poteva che pensare che era lì. Sarebbe bastato
scendere un pochino, scivolare innocentemente e avrebbe potuto
sentirlo. La cosa più paradossale di tutta questa ossessione è che
di fatto c'era scivolato più di una volta con la mano prima di
accorgersi che esistesse e non l'aveva mai sentito. Però ora sapeva
e aveva la più ferrea convinzione che l'avrebbe avvertito col tocco.
Ed era l'unica cosa che riusciva a pensare mentre lei lo guardava
serena e gli parlava della sua giornata, di quello che aveva
mangiato, delle persone con cui aveva parlato, di quanto fosse stanca
o affranta o felice di essere di nuovo assieme dopo tutto quel tempo.
Ogni
parola lo faceva sentire terribilmente in colpa per il fatto di
essere così ossessivamente bloccato a quel dettaglio insignificante
nel complesso di una persona, e lo portava a concentrarcisi
ossessivamente. E più ci si concentrava più odiava se stesso per
concentrarcisi così tanto, e più odiava se stesso più si trovava
ossessivamente a pensarci. Perché anche pensare a quanto ci pensasse
lo costringeva, alla fine, a pensare alla cosa. Semplicemente
scivolava dal pensiero di seconda mano a quello diretto. Così alla
fine quando lei rientrava stanca quanto lui e buttava a terra la
ventiquattrore e la sciarpa gialla di Vuitton che le aveva regalato
per il loro quinto anniversario, e pareva talmente stanca da non
poter sopportare un altro istante di quella vita, e in quel momento
lui che era rientrato da forse un paio di minuti e nel
vederla già era concentrato su quanto orribile e grottesco e deforme
fosse quello specifico punto del suo corpo - che non avrebbe visto né
quella notte né praticamente aveva mai visto nessuna notte che
avessero trascorso assieme - in quell'istante il pensiero di averla
accanto tutta la sera dolce e stanca e affettuosa come tutte le sere, lo torturava peggio di qualunque umiliazione avesse dovuto affrontare
nel corso della giornata. Si meritava di stare con lei? Non perché
lei in quanto donna fosse unica e speciale e superiore a lui, ma
perché in quanto essere umano decente non aveva questa maniacale
ossessione per un invisibile difetto fisico nel corpo del suo
partner. Per venire a patti con il suo egocentrismo, con quello che
reputava essere solo bieco e disgustoso - veramente disgustoso, non
come il corpo di lei - egocentrismo, si costringeva a reputarsi degno
di lei. E dal momento che non poteva lui mettersi nella condizione di
decente essere umano e buon compagno di vita, perché sapeva
benissimo di non esserlo, doveva allora lei avere i suoi stessi
difetti. Doveva abbassarla al suo livello o quantomeno riuscire a
crederla tale. Doveva essere ripugnante, questa volta per davvero, e
si impegnava per offendersi in qualunque modo possibile. Che con
scarsa meraviglia di pubblico è più facile di quanto non ci si
immagini. Uno sguardo storto, una risposta eccessivamente brusca; i
piatti sporchi lasciati sulla tavola o non sciacquati prima di venire
messi nel lavandino. I vestiti abbandonati sulla sedia, il silenzio
su quel collega che, sapeva, la guardava come non avrebbe dovuto.
Tutto era più che sufficiente. Le scenate non mancavano. Le crisi,
le minacce di separazione. E dire che questo alleviasse in qualche
modo la situazione sarebbe stato altrettanto assurdo. Perché alla
fine di ogni litigata, alla fine di ogni discussione o capriccio, il
punto ritornava a esistere. Appena esisteva il silenzio, esisteva
anche lui. Ma non solo, perché ora assieme al punto si erano andate
ad accumulare tutta una serie di lamentele e capricci e scenate e
veri e propri attacchi schizofrenici di standard impossibili e
aspettative insostenibili e gelosie ingiustificate che le aveva
scaricato addosso come una carriola carica di merda. Vale a dire tutta
una serie più che valida di motivi per sentirsi ancora peggio e
ancora più infimo e vile e inferiore a lei, e per non riuscire a
pensare ad altro che al punto. E quello che è peggio, alla fine di
ogni scenata- sua moglie trovava un modo per giustificare la sua
isteria e far ricadere la colpa su se stessa. La donna non aveva
motivo di sospettare le ragioni del cambiamento di suo marito. Il suo
comportamento era sempre stato stabile. Così che il rasoio di Occam
la costringeva a credere la colpa fosse sua. Così che dopo che lui
quasi l'aveva picchiata per essersi dimenticata un ombrello di
plastica rosa sul posto di lavoro (dove difficilmente l'avrebbe
ritrovato il giorno dopo) lei si era imposta - come tutte le altre
volte, ma più ancora di tutte le altre volte - di rispondere
comportandosi ancora più passivamente e amorevolmente e
affettuosamente e premurosamente. Così che da quel momento lui non
potesse avere più nulla, proprio nulla di cui lamentarsi. Era stata
cattiva, se lo sentiva, ma non lo sarebbe stata mai più. Che era
esattamente quanto di peggio potesse fare, in quei momenti, quando il
pensiero del punto ritornava in lui sopra ogni altro, e avrebbe solo
voluto trovare qualcosa a cui appigliarsi per non doversi sentire
così profondamente, irrimediabilmente inferiore a sua moglie. E in
quei momenti sua moglie faceva di tutto per essere la donna più
amorevole e passiva e affettuosa e premurosa che l'uomo potesse mai
immaginare di convincere a venire a letto con sé. Riuscendoci.
Il
punto è che dalle scenate e i capricci e gli strilli si era passati
alle confrontazioni serie, alle minacce e ai silenzi, e un giorno
l'aveva colpita. Era stato surreale. La giornata era la solita
giornata lavorativa; forse solo i casini si erano accumulati più
pressantemente o le persone l'avevano trattato vagamente peggio, o
forse non c'era alcuna spiegazione logica se non il climax di scenate
e isterie che ogni giorno prendevano la casa. Il punto è che l'aveva
colpita. Con indecisione, a sua discolpa. Quasi si fosse pentito
dello schiaffo ancora a mezz'aria. Non l'aveva colpita con forza, non
le aveva fatto girare la testa per il momento della mano, ma il gesto
si era consumato. Era rimasto immobile, subito dopo, fermo in piedi a
mezzo metro di distanza dalla donna. Che era altrettanto immobile e
piangeva in silenzio. Piangere è forse una parola grossa; aveva
semplicemente una sottile riga che dagli occhi le colava il mascara
per parte delle guance. E stava zitta. Così come sarebbe rimasta
zitta per tutto il resto della serata.
Alle
tre di notte, dopo essersi addormentati ancora nel silenzio, dandosi
la schiena a vicenda nel letto, qualcosa l'aveva svegliato. Nel letto
qualcuno si stava muovendo. Nello sbattere le palpebre, si era
accorto che le coperte non c'erano più. Aveva i pantaloni calati e non indossava più le mutande. E sua moglie stava accovacciata fra le sue gambe con il suo
uccello fra le labbra. Qualcosa che aveva sempre schifato fare a
causa di un lieve trauma d'infanzia su cui non è il caso di
soffermarsi, ora la occupava con una foga che a letto non le aveva
mai visto. La donna si era asciugata la bocca con un braccio, aveva
messo a posto le coperte e senza aver ancora detto una parola era
ritornata a dormire, sdraiata fetalmente e con la testa quasi
poggiata al suo petto. Il giorno successivo e la sera successiva
tutto si era svolto come se non fosse mai successo nulla. Di fatto l'uomo
aveva persino smesso di pensare al punto. Non esisteva più, era
libero. Per un periodo di circa due settimane, fino a che un sabato lei
gli aveva chiesto di controllare se si fosse tagliata andando in
bicicletta, e il taglio sarebbe dovuto essere proprio sul retro di
quella coscia, e l'uomo senza pensarci aveva accettato. E a guardare
lì non ce l'aveva fatta. In un secondo il punto esisteva di nuovo e
con il punto aveva ripreso a esistere il vortice di disgusto nei suoi
confronti, disgusto nei propri confronti, auto-recriminazione e
schifo che l'aveva avvolto.
Passò
decisamente meno tempo rispetto alla prima volta perché la colpisse
ancora. Ora lo schiaffo era stato ben deciso, però. Un tonfo sordo
con cui le aveva storto la testa. Quella notte sua moglie l'aveva svegliato per
baciarlo e prenderlo fra le sue gambe e la donna aveva avuto il primo
orgasmo, dal momento in cui si erano conosciuti, in cui non si
concentrava semplicemente, ma sentiva il bisogno fisico di urlare. Se
il giorno dopo non avesse vomitato più volte ripensando al tutto,
l'uomo l'avrebbe definito il sesso migliore della sua vita.
La
volta successiva che la picchiò lei si propose di prenderlo da
dietro. Di volta in volta la donna trovava sempre nuove e più
esotiche posizioni, e l'uomo la colpiva sempre più violentemente; a
volte le faceva sputare sangue. E il giorno dopo, inevitabilmente,
l'uomo doveva continuamente prendersi delle pause per andare in
bagno, vedere l'immagine riflessa del suo viso, e vomitare con
violenza.
Avevo
perso cinque chili, e questo dava un'aria nodosa alle sue mani che,
sospettava, facessero ancora più male quando la colpiva. Come venire
schiaffeggiati da un gatto a nove code.
Nel
tempo era diventata una pratica talmente abituale, talmente
consuetudinaria nelle abitudini della coppia, che quasi non ci
facevano più caso. Era il loro modo di amarsi, avrebbe detto l'uomo
se fosse stato in grado di razionalizzare. O meglio se fosse stato in
grado di guardare con assoluta indifferenza e cinismo alla sua
situazione, senza provare un briciolo di quell'immenso disgusto che
provava ormai costantemente per se stesso.
Il
punto è che una sera erano a cena dei suoi genitori, dei genitori di
lei, e le aveva chiesto di passargli il sale. In quel momento era
squillato il cellulare della donna. Un messaggio. La donna aveva
risposto che era una questione di lavoro, avrebbe risposto e
immediatamente dopo gli avrebbe passato il sale. Quasi per riflesso
condizionato l'uomo l'aveva colpita con tutta la forza che avesse in
corpo, schiantandole la testa sul tavolo e nel piatto di minestra che
stavano mangiando. Di fronte ai genitori della donna.
Dopo
qualche ora il problema del punto era definitivamente uscito dalla
sua vita.
"Cosa ti ricordi di tua madre? O meglio del periodo in cui io e tua madre stavamo assieme?".
"Nulla, cosa posso ricordarmi, avrò avuto sì e no sei mesi".
"Ottimo".